Dogman, recensione del film di Matteo Garrone ispirato al Canaro della Magliana

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In Dogman il regista Matteo Garrone prende spunto dalla sanguinosa vicenda del “Canaro della Magliana”, realizzando un tesissimo film che punta sulla violenza psicologica più che su quella visuale, con le eccezionali interpretazioni di Marcello Fonte ed Edoardo Pesce.

Accolto da 10 minuti di applausi alla proiezione ufficiale al Festival di Cannes (dove è in concorso per la Palma d’Oro), arriva nelle sale italiane uno dei migliori film dell’anno, Dogman di Matteo Garrone, ispirato alla vicenda del cosiddetto “Canaro della Magliana“, sanguinoso fatto di cronaca nera che sconvolse la Capitale trent’anni fa.

Marcello e Simoncino

Il film vede protagonista Marcello (Marcello Fonte), un mite tolettatore di cani benvoluto da tutto il (degradato) quartiere in cui vive e lavora. La sua vita semplice, fatta di amore per i quadrupedi e per la figlia Alida (Alida Baldari Calabria) con la quale condivide la passione per le immersioni subacquee, si intreccia con quella dell’ex pugile Simoncino (Edoardo Pesce), una testa calda che non perde occasione per importunare il prossimo, perennemente alla ricerca di soldi e cocaina. Marcello e Simoncino hanno però uno strano rapporto di amicizia-sudditanza, con il primo che non riesce a non subìre le angherie del secondo, che lo coinvolge anche in attività illecite. E le scelte di Marcello di assecondarlo ogni volta, si ritorceranno contro di lui, portandolo persino in carcere. Ma dopo tante angherie scatterà inevitabilmente qualcosa nella testa di Marcello, che porterà ad una sanguinosa vendetta.

Senza luogo e senza tempo

C’era molta attesa per scoprire come Matteo Garrone si sarebbe approcciato alla vicenda del Canaro e quali delle atroci torture (in realtà poi smentite dall’autopsia) sarebbero state mostrate. Il regista di Gomorra lascia invece da parte l’orrore visivo (pochissima roba, giusto nel finale) come già accaduto con L’imbalsamatore (di cui condivide certe atmosfere), concentrandosi invece su quello psicologico, di gran lunga più inquietante ed intossicante. Innanzitutto distaccandosi dalla storia originale (al di là dei nomi differenti), trasportandola ai giorni nostri e delocalizzandola dalla Magliana ad una cupa e tetra Castel Volturno, ma riuscendo in realtà a creare un effetto di “non luogo” e “non tempo”, al di là dei personaggi dall’accento romanesco, e con rari riferimenti alla modernità (il pc della piccola Alida, i videopoker moderni, gli euro e poco altro).

Dalle sofferenze al momento di gloria

Sviluppata nell’arco di ben 13 anni e modificata più volte, la sceneggiatura scritta dallo stesso Garrone con i fidi Ugo Chiti e Massimo Gaudioso calca la mano sulla fragilità e la miseria umana di un uomo buono, ma allo stesso tempo ingenuo e pusillanime, soggiogato dalla debordante e costante bullizzazione subìta da parte del suo “amico” Simoncino, che spadroneggia in lungo e in largo all’interno di un quartiere che è un microcosmo fatto di interessi personali ed omertà. Da lì il vortice di eventi (che si sviluppa con costante tensione per quasi l’intera durata del film) porta Marcello ad arrivare a compiere quella che più che una vendetta è da considerare una sua catarsi, il “momento di gloria” di un piccolo uomo che vorrebbe rendere partecipe il mondo dell’impresa che è riuscito a compiere, trovandosi ancora una volta nell’indifferenza di quello stesso mondo che in precedenza non era stato in grado di proteggerlo.

La cronaca nera è solo uno spunto

Dogman non è, quindi, solo una storia di vessazioni e vendetta, ma un film che prende spunto da un fatto di cronaca nera per raccontare molto di più, e parlare di solitudine, di bullismo, di indifferenza, di vite vissute ai margini della società tra droga e piccoli crimini, di un tentativo di riscatto, e di quanto ogni scelta che viene compiuta porti poi a delle conseguenze. La vicenda è strutturata quasi come una sorta di western vecchio stile e i rimandi, per ammissione dello stesso regista, a titoli quali Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli o Cane di paglia di Sam Peckinpah, non traggano in inganno. Qui si entra visceralmente nella vicenda fino agli abissi più profondi, anche se non si empatizza fino in fondo con Marcello, reo di scelte a volte davvero incomprensibili (come la galera).

Marcello Fonte ed Edoardo Pesce, due interpretazioni memorabili

Una consistente fetta del risultato ottenuto da Dogman è merito della straordinaria performance di Marcello Fonte, attore-non attore da cinema anni ’60 con la sua ingenua naturalezza un po’ chapliniana e un po’ pasoliniana, che meriterebbe indubbiamente di essere premiato a Cannes (e che ha già in tasca come minimo il prossimo David di Donatello). Non da meno il violento ex pugile di un tumefatto e gigantesco Edoardo Pesce (che già in Fortunata dava il “peggio” di sé), irriconoscibile e bravissimo nel ruolo di un villain pressoché totale. Tra i negozianti del luogo, due dei protagonisti della serie Suburra, Francesco Acquaroli (da Samurai a gestore sala slot) e Adamo Dionisi (da capo zingaro a Compro oro), oltre al pusher Mirko Frezza, al ristoratore Gianluca Gobbi e alla madre di Simoncino, Nunzia Schiano. Curiosità finale: il ruolo del Canaro era stato inizialmente offerto, tanti anni fa, a Roberto Benigni che, pur apprezzando la prima stesura della sceneggiatura, disse «Ma che c’entro io con questo ruolo?». Probabilmente oggi la sua risposta non sarebbe la stessa.

Dogman, diretto da Matteo Garrone, con Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Francesco Acquaroli, Adamo Dionisi, Gianluca Gobbi, Mirko Frezza, Nunzia Schiano, Alida Baldari Calabria, è nelle sale italiane dal 17 maggio, distribuito da 01 Distribution.

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