La lunga corsa, recensione: cercare la libertà anche tra le mura di una prigione

La lunga corsa - Adriano Tardiolo e Giovanni Calcagno (foto di Olena Ivashkina)
La lunga corsa - Adriano Tardiolo e Giovanni Calcagno (foto di Olena Ivashkina)

Ecco la nostra recensione de La lunga corsa, secondo lungometraggio di Andrea Magnani, che pesca nel racconto di formazione e nel prison drama per raccontare la storia di una libertà quanto mai peculiare

Cosa vuol dire essere liberi? Cos’è che ci riporta davvero verso quei luoghi, per quanto strani o astrusi possano apparire agli occhi degli altri, che ci fanno sentire al sicuro, a casa? Da queste domande parte La lunga corsa, opera seconda di Andrea Magnani dopo Easy del 2017, un connubio delicato e a suo modo magico tra prison drama, racconto di formazione e road movie e che vanta nel cast anche la presenza di Barbora Bobulova.

Una prigione chiamata casa

Il carcere per Giacinto (Adriano Tardiolo) è tutto tranne che un buco nero: figlio di due detenuti, lui dentro un carcere non solo ci è nato, ma ci è pure cresciuto. Libero di volare via, decisamente impreparato a farlo. Infanzia, adolescenza, candeline dei 18 anni:
quella è casa sua nonostante le sbarre e Jack (Giovanni Calcagno), il capo dei secondini, è un burbero e premuroso papà. Quando Giacino si trova a voler aiutare Rocky (Nina Naboka), una donna accusata dell’omicidio del figlio, sarà costretto a doverne affrontare le conseguenze e la pressione del direttore del carcere Malin (Barbora Bobulova).

La lunga corsa - Adriano Tardiolo (foto di Olena Ivashkina)
La lunga corsa – Adriano Tardiolo (foto di Olena Ivashkina)

Un inno alla libertà

Giacinto deve tornare in carcere. Quel che potrebbe sembrare una richiesta al limite tra mitomania, egoriferimento e delirio di un folle è in realtà una necessità vera, fondata e fondante di un’identità precisa che all’interno di quelle mura si è plasmata e forgiata. Se tutte le detenute e anche tutto il resto dei suoi colleghi considera il carcere come una gabbia privatrice, per Giacinto quello è l’unico posto al mondo nel quale sentirsi davvero al sicuro, non giudicato, protetto, forse persino compreso.

La lunga corsa è quindi un film che ragiona sul luogo in cui si cresce come parte integrante della propria identità, nonché come conditio sine qua non per aspirare al raggiungimento di una libertà esteriore e forse persino interiore. Un’opera che si nutre di un’attesa lunghissima, quasi eterna, come ad aspettare un Godot che non arriva mai, ma che al contempo fa anche della delicatezza dello sguardo e della capacità di trattenere le emozioni all’interno il suo tratto distintivo.

La lunga corsa - Barbora Bobulova (foto di Olena Ivashkina)
La lunga corsa – Barbora Bobulova (foto di Olena Ivashkina)

Scrittura meno incisiva del resto

Eppure c’è un solco impervio e accidentato che si insinua pernicioso nella traccia di questo La lunga corsa, ed è una mancanza a cui non si può soprassedere. Nel tentativo di ricercare la poeticità di un angolo di inferno, di una cella marcia o di un corridoio emaciato che conduce alla prigionia il regista e sceneggiatore Andrea Magnani si dimentica di dare concretezza e profondità anche al testo oltre che all’immagine, di costruire sopra alle inquadrature evocative un ritratto drammaturgico altrettanto potente e incisivo.

Purtroppo tutta la pellicola si appoggia quasi soltanto sulle nobili intenzioni visive e sul fascino ancestrale e simbolico dello sguardo (bellissima in tal senso l’intera sequenza di Rocky e Giacinto in riva al mare di notte), ma non riesce a scrivere dialoghi altrettanto lucidi, a creare situazioni di pari intensità drammatica o a creare personaggi la cui profondità vada oltre delle pure interessanti e potenzialmente feroci backstory. Il risultato di questa forte discrepanza è un coinvolgimento emotivo che latita, in parte annacquato da una storia che non decolla mai aspettando qualcosa che deve ancora accadere.

La lunga corsa - Giovanni Calcagno (foto di Olena Ivashkina)
La lunga corsa – Giovanni Calcagno (foto di Olena Ivashkina)

La gentilezza comunque è un valore

Quantomeno se La lunga corsa ha un grande punto di forza, e ce l’ha eccome, sta nel suo essere profondamente gentile, pastoso ma mai troppo molle e non urlato. Giacinto in fondo è un fiore cresciuto nel cemento, un uomo che trova nelle asperità e nelle spigolosità della vita carceraria e dei suoi abitanti la sua principale raison d’être; lui, come il film che lo guida, non ha bisogno di strepitìi o di scene madri ma si accontenta di dare valore al candore di un’anima gentile e, per certi versi, ancora pura.

Quello de La lunga corsa è cinema di spazi e confini che progressivamente si assottigliano o si allargano, secondo chi li percorre o li attraversa. Giacinto è un custode di quegli spazi ma è anche un custode delle anime che li popolano, uno specchio attraverso il quale i reietti della società possano finalmente osservarsi per provare finalmente a riconnettersi con il mondo al di fuori. A suo modo commovente, tenero e leggero come la rugiada questo piccolo film di Magnani sconta un po’ troppe ingenuità di costruzione, ma ha la capacità di apersi librare in uno spazio, lassù, dove c’è ancora un po’ di posto per il cuore.

La lunga corsa. Regia di Andrea Magnani con Adriano Tardiolo, Giovanni Calcagno, Nina Naboka e Barbora Bobulova, in uscita giovedì 24 agosto distribuito da Tucker Film.

VOTO:

Tre stelle

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