Insidious: La porta rossa, recensione: l’ultimo viaggio nell’Altrove ha il sapore di un family drama

Insidious: La porta rossa - Patrick Wilson (foto Sony Pictures Italia)
Insidious: La porta rossa - Patrick Wilson (foto Sony Pictures Italia)

La recensione di Insidious: La porta rossa, ultimo film della saga horror con Patrick Wilson (qui anche regista), Ty Simpkins e Rose Byrne: tornano i demoni dell’Altrove ma l’impianto da family drama è superiore alla paura

Sono passati dieci anni da quell’Insidious: Oltre i confini del male che aveva temporaneamente chiuso le vicende della famiglia Lambert. In mezzo ci sono stati due prequel di buon successo e la dipartita del fido James Wan, ora prestatosi ai blockbuster hollywoodiani e ai cinefumetti, ma ci ha pensato Patrick Wilson a riportare la saga alle origini con Insidious: La porta rossa, un ultimo capitolo che provi in qualche modo a tessere le fila del discorso. Con lui tornano anche Ty Simpkins e Rose Byrne ma soprattutto l’Altrove, la dimensione oscura in cui gli spiriti dei morti sono costretti a vagare per l’eternità in attesa di poter uscire. Tanto family drama in questo quinto (o terzo?) capitolo, ma l’impressione è che quei demoni nascosti tra le ombre ora facciano meno paura.

Dieci anni dopo

Josh Lambert (Patrick Wilson) e sua moglie Renai (Rose Byrne) si sono separati, ma non è l’unica crepa che si è lentamente insinuata nell’idillio apparente della famiglia Lambert. Il loro figlio primogenito Dalton (Ty Simpkins) è in fatti in procinto di trasferirsi al college per iniziare una nuova vita, nonostante continui a soffrire la perdita di memoria causata dagli eventi occorsi dieci anni prima. Sarà proprio Josh, spinto dalla moglie, a decidere di accompagnare il figlio sperando così di sistemare il loro rapporto, ma Dalton si dimostra poco disposto ad un ricongiungimento e molto più interessato alla propria carriera di artista. All’università Dalton conosce Chris (Sinclair Daniel), la sua nuova compagna di stanza, e si fa notare ben presto dalla sua insegnante di arte, finché una serie di strani eventi e apparizioni sempre più spaventose non lo costringono a fare i conti con quel passato sommerso e con una verità indicibile che gli era sempre stata taciuta fino a quel momento. I demoni dell’Altrove sono reali e stanno per varcare di nuovo la porta rossa.

Insidious: La porta rossa - Patrick Wilson e Ty Simpkins (foto Sony Pictures Italia)
Insidious: La porta rossa – Patrick Wilson e Ty Simpkins (foto Sony Pictures Italia)

La soppressione del trauma

C’è sempre stato un che di junghiano nel modo in cui la saga di Insidious affronta il terrore dell’oscurità e dei mostri che si annidano tra le sue ombre, e questo Insidious: La porta rossa si dimostra ancora una volta un capitolo pregno di una forte componente psicologica prima ancora che viscerale o fisica. Nel mondo partorito da James Wan la paura non uccide il corpo, non aggredisce la carne ma attacca i sensi, la percezione del reale, la nostra capacità di discernere ciò che è esiste solo nella nostra mente e ciò che invece è riuscito ad uscirne. Nel finale del secondo capitolo è stata la rimozione della memoria, e quindi la soppressione del trauma, l’unica scelta possibile per impedire che l’Altrove potesse di nuovo spalancare la sua porta e penetrare la mente di Dalton e di suo padre Josh, ma questa rimozione così violenta ha lasciato delle tracce, delle cicatrici che col tempo hanno cominciato a riaprire degli squarci all’interno dei ricordi. Quest’ultimo capitolo lavora allora proprio sull’esacerbare il confine tra manifestazione e ricordo, utilizzando lo scontro generazionale e la distanza emotiva tra padre e figlio come specchio riflettente di un male molto più sottile e pericoloso di quello sovrannaturale.

Insidious: La porta rossa - Patrick Wilson (foto Sony Pictures Italia)
Insidious: La porta rossa – Patrick Wilson (foto Sony Pictures Italia)

Nell’Altrove ma per poco

Si torna nella dimensione oscura in questo Insidious: La porta rossa e non sarebbe potuto essere altrimenti, perché l’Altrove rappresenta la negazione di tutto ciò che c’è di umano, di razionale, di benevolo nelle vite di Josh e Dalton e quindi anche nelle nostre. Solo che questa volta il viaggio è particolarmente breve e meno orrificante rispetto alle precedenti puntate, perché il protagonista regista Patrick Wilson sceglie di rimanere per gran parte del tempo nel piano reale della storia sacrificandone l’aspetto più ultraterreno. È una scelta rispettabile e, per certi versi, comprensibile ma che purtroppo riduce e di non poco la componente dell’orrore nella sua manifestazione più immediata ed efficace; i jumpscare non mancano (e un paio sono particolarmente riusciti), non mancano le sequenze immerse nell’oscurità, le litanie inquietanti che provengono da chissà dove e le apparizioni improvvise, ma manca l’horror vacui più puro. La tensione viene perciò diluita nel passaggio tra un mondo e l’altro e dato che, come già scritto in precedenza, Wilson sceglie in gran parte un approccio più intimista e psicologico ma ancorato alla realtà, ci sembra tutto fin troppo famigliare. Un orrore che c’è e s’intravede, ma che si accontenta di affacciarsi a quella soglia senza oltrepassarla mai.

Insidious: La porta rossa - Ty Simpkins (foto Sony Pictures Italia)
Insidious: La porta rossa – Ty Simpkins (foto Sony Pictures Italia)

Un family drama mascherato

Alla fine di Insidious: La porta rossa sopraggiunge la sensazione di aver assistito ad un vero e proprio family drama in cui la presenza del Male è solo suggerita, o tuttalpiù utilizzata per amplificare i conflitti e aumentare la posta in gioco. Non che ci sia nulla di sbagliato nell’utilizzare i codici di un genere per raccontarne un altro, ma la pellicola di Wilson è troppo timida in certe occasioni e poco coraggiosa in altre, riuscendo ad essere molto più efficace nell’incontro/scontro tra Dalton e e suo padre rispetto a quello con gli spiriti dell’Altrove. Ne consegue un viaggio privo di momenti che riescano a staccarsi di binari già tracciati dai due capitoli precedenti, e quindi poco interessato alla sovversione del proprio immaginario il quale viene invece riproposto con tutti gli stilemi e i crismi diegetici tipici della saga.

Nonostante questo però la pellicola fa il suo dovere con una discreta padronanza dei suoi mezzi espressivi, perché il buon Patrick ha studiato per bene la materia e il mestiere avendo bazzicato il genere per anni. Rimane convincente la chimica con Ty Simpkins, che a dispetto degli anni ha riabbracciato il proprio personaggio con una certa sicurezza, ed è apprezzabile il tentativo di voler costruire una storyline anche con il personaggio di Renai, il quale rimane molto sullo sfondo nonostante Rose Byrne faccia del suo meglio per dare dignità al poco materiale a disposizione. I brividi lungo la strada non saranno molti, l’impressione è che quel treno sia già ormai partito da tempo, ma una durata non eccessiva e l’umanità del rapporto padre/figlio che prende forma sullo schermo come antidoto al Male più assoluto dovrebbero essere sufficienti a non far rimpiangere troppo il costo del biglietto. L’Altrove, comunque, è sempre lì che vi aspetta.

Insidious: La porta rossa. Regia di Patrick Wilson con Patrick Wilson, Rose Byrne, Ty Simpkins, Sinclair Daniel e Lin Shaye, in uscita oggi nei cinema distribuito da Sony Pictures Italia.

VOTO:

Tre stelle

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