Harvest, recensione Venezia 81: l’affascinante ma irrisolto tempo di Athina Rachel Tsangari

Harvest - una scena del film (Photo Credits @Jaclyn Martinez)
Harvest - una scena del film (Photo Credits @Jaclyn Martinez)

Da Venezia 81, in concorso, la nostra recensione di Harvest di Athina Rachel Tsangari: un quasi western atipico e irrisolto, d’ambientazione forse tardo medievale, che si prende i suoi tempi e sfrutta il liricismo della narrazione nella sempiterna lotta tra tradizione e innovazione

Un villaggio medievale sperduto nel nulla è l’arena di Harvest, il nuovo film di Athina Rachel Tsangari in concorso a Venezia 81 con protagonista il Caleb Landry Jones di Dogman. Un luogo lontano nello spazio e nel tempo che sta per essere inesorabilmente e lentamente annientato da una maledizione, nel giro di appena 7 giorni. Chi si aspettava, con un concept simile, un film dal ritmo sostenuto, dai conflitti esplosivi e dalla confezione di grande impatto visivo dovrà ricredersi perché la regista greca spiazza e rovescia le attese girando esattamente all’opposto: non tutto le riesce bene e a volta la durata si sente, ma lo sguardo su una comunità alle soglie di un cambiamento epocale resta lirico e ipnotico.

3 capri espiatori

In un superstizioso villaggio scozzese di un tempo indefinito, il fattore Walter (Caleb Landry Jones) e il suo padrone ed amico d’infanzia, il signore del maniero Charles (Harry Melling), vedono insidiato il loro potere quando il cugino di quest’ultimo, Edmund (Frank Dillane), introduce nuovi e più moderni metodi per il raccolto tra gli abitanti. L’arrivo però di tre misteriosi stranieri sconvolgerà ulteriormente il già fragile equilibrio, e la loro punizione pubblica per un rogo misterioso scatenerà sul villaggio una terribile maledizione.

Harvest - Caleb Landry Jones (Photo Credits @Jaclyn Martinez)
Harvest – Caleb Landry Jones (Photo Credits @Jaclyn Martinez)

Un film che brucia lentamente

Se fossimo in una riunione dei produttori di Netflix ( o in una puntata di Boris) Harvest sarebbe quello che chiamerebbero uno slow-burner, cioè un film che brucia lentamente. Se il concept di partenza avrebbe potuto far pensare ad un taglio più tradizionale, persino più muscolare e meno contratto, a conti fatti il ritmo compassato e il grande liricismo della messa in scena rappresentano l’aspetto più interessante e spiazzante del lavoro della greca Athina Rachel Tsangari. Perché, checché se ne dica del resto, Tsangari sa girare, sa come comporre un’inquadratura rendendola viva e non soltanto il contorno statico dell’obiettivo della macchina da presa.

Harvest si nutre perciò dei paesaggi naturali mozzafiato della Scozia più rurale e bucolica, ammantanti dalla folta vegetazione, dai ruscelli immacolati, dal grano che s’intravede nella sequenza iniziale e che dà sostentamento al villaggio, dall’isolata pace di un mondo ai confini di una civiltà in continua evoluzione. In mezzo poi ci sono il folk medievale, i racconti sospesi tra verità e mito, il divino e l’umano che si mischiano rischiando quasi di contaminarsi a vicenda, il corpo come strumento di dannazione (la morte di uno tre sconosciuti e il taglio di capelli), il cambiamento imminente. Tutto fa brodo, tutto contribuisce a creare un’atmosfera sospesa ed eterea che Tsangari restituisce benissimo grazie anche alla fotografia pastosa di Sean Price Williams.

Impossibile quindi staccare gli occhi dallo schermo, sebbene il ritmo molto compassato e il pacing discontinuo richiedano una dose di attenzione e di pazienza non da poco, ricompensati però da un finale di grande potenza sia visiva che diegetica che sublima l’ineluttabilità di un passaggio di consegne da un mondo irto di tradizione ad un mondo che guarda alla modernità.

Harvest - la regista Athina Rachel Tsangari (Photo Credits @Ian Hassett)
Harvest – la regista Athina Rachel Tsangari (Photo Credits @Ian Hassett)

Tra antico e moderno

Perché è proprio la dicotomia tra passato e presente (o futuro?), tra la tradizione e l’innovazione a rappresentare il cuore tematico di Harvest diviso tra la visceralità di un mondo – quello campagnolo – semplice e brutale e la complessità dell’industrializzazione delle città, in cui persino il credo religioso diventa più complicato. Quello in cui Harvest fa più fatica è proprio nel processo di chiarificazione della scrittura, un po’ troppo fangosa soprattutto nei suoi personaggi e nelle loro motivazioni, e incapace di avere la stessa forza delle inquadrature e del proprio sguardo registico.

Forse è anche colpa di un minutaggio francamente eccessivo, dovuto probabilmente alla volontà della regista greca di non annullare il respiro cinematografico dell’opera concedendole più tempo per schiudersi del tutto. Vizi dello script a parte, in Harvest si avverte la sacralità di un cinema che lavora sullo spazio e sull’indefinito, adattando l’omonimo romanzo di Jim Crace in un character study sull’impossibilità di accettare il cambiamento senza che vi sia un qualche tipo di rivoluzione a rallentarlo, oppure a velocizzarlo. È un cinema che chiede molto e in cambio restituisce abbastanza, ma lo fa con il tempo anche a costo di essere inaccessibile.

TITOLO Harvest
REGIA Athina Rachel Tsangari
ATTORI Caleb Landry Jones, Harry Melling, Rosy McEwen, Arinzé Kene, Thalissa Teixeira, Frank Dillane
USCITA 2025
DISTRIBUZIONE I Wonder Pictures

 

VOTO:

Due stelle e mezzo

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