Da Venezia la recensione di Dogman di Luc Besson, una favola nera con protagonista la rivelazione Caleb Landry Jones nei panni di un outsider dal passato turbolento che ha come unici amici dei cani
Nel corso della sua carriera Luc Besson ha avuto spesso a che vedere con personaggi borderline, disadattati, spesso invisi alla società che non perdonava loro una certa diversità. Dogman, il suo nuovo film in concorso a Venezia 80, presenta un nuovo ingresso nella filmografia bessoniana grazie ad una sorprendente e intensissima performance attoriale di Caleb Landry Jones che veste i panni di un ragazzo che si trova davvero compreso solo dai tanti cani di cui si circonda, in una storia dolce-amara che si nutre di suggestioni e di generi diversi.
I migliori amici dell’uomo
Douglas (Caleb Landry Jones) è sempre stato un emarginato fin quando da piccolo era vittima delle violenze del patrigno e del fratello, e aveva come suoi unici amici e confidenti un banco di fedelissimi cani. Ora adulto ma ugualmente tormentato, Douglas possiede ancora questo strano legame inter-specie e lo userà per vendicarsi dei torti subiti, pur dimostrando un grandissimo talento come performer in uno strip club. Sul suo cammino, però, arriverà la psichiatra Evelyn (Jojo T. Gibbs), l’unica davvero in grado di farlo aprire.
Una vita difficile
Assomiglia quasi ad un romanzo dickensiano la parabola di Douglas in Dogman: un’infanzia segnata dalla perdita (della madre) e dagli abusi di patrigno e fratello, povertà, un futuro nebuloso all’orizzonte e la sensazione di non essere compreso da nessuno. Poi, ad un certo punto, la svolta salvifica. Che in questo caso si manifesta sotto forma di pelosi amici a quattro zampe, fedeli quasi fino all’adeptismo e in grado di comprendere e attuare qualcosa comando, sia verbale che non. Noi la sua vita la scopriamo mano a mano, tramite un lungo racconto che Douglas fa alla sua psichiatra e che spezza grazie ai flashback la linearità di una storia tutto sommato semplice, ma che si regge su un forte simbolismo di fondo.
Ovunque ci sia una persona infelice, Dio manda un cane recita il cartello iniziale che rimanda al poeta Alphonse de Lamartine e che in qualche modo già anticipa da che parte Besson sta e da che parte vorrebbe che lo spettatore stesso stia. Perché questa storia di caduta nell’abisso, di prigionia e di rinascita attraverso un amore tanto insperato quanto assoluto ci parla di noi umani, del nostro disperato bisogno di sentirci accettati, amati, compresi. Salvati. Possono farlo i cani, può farlo l’arte (splendida la scena in cui Douglas si esibisce come Edith Piaf) o possono farlo gli uomini stessi.
Cercare la luce
In Dogman Luc Besson torna ad esaminare la materia fondativa del proprio cinema, che sin dai tempi di Léon ormai 30 anni fa ha rappresentato sia una cifra stilistica che, soprattutto, tematica. E questa storia è una storia perfetta per il cineasta francese, perché attraverso la vita di Douglas e il suo rapporto con il mondo che lo circonda può esplorare quell’umanità disperata e ai margini che lo ha da sempre affascinato. L’autore francese miscela favola nera e racconto di formazione con il thriller metropolitano, in un terzo atto che ad un certo punto assume quasi i contorni di un home invasion e in cui la violenza non viene mai davvero esplicitata.
Qui invece, pur lavorando (purtroppo) poco sui silenzi e sul non detto, l’impressione è che Dogman voglia svelare poco a poco la complessa psicologia di Douglas, grazie ad un’interpretazione notevole di Caleb Landry Jones per intensità e varietà di toni. In molti potrebbero vederci un antesignano del Joker, o magari una sua scopiazzatura, ma il suo è un personaggio che forse si avvicina di più ad un Patrick McMurphy che alla nemesi di Batman, proprio perché non macchiato dal seme della follia ma solo da quello dell’incomprensione.
Sebbene corrotto in parte da una certa programmaticità e da alcune scelte narrative che richiedono giocoforza un grosso lavoro di sospensione dell’incredulità, Dogman trova il suo baricentro e il motivo stesso della propria esistenza nel calore di una relazione – tra Douglas e i suoi cani – tanto profonda e sincera nelle intenzioni quanto ferina e istintiva nel suo esprimersi nei confronti del mondo esterno. In fondo da che mondo e mondo gli outsider hanno bisogno di altri outsider per sentirsi meno soli, per sentirsi necessari. ALcune persone pensano che i cani siano meglio delle persone, ma Besson sembra dirci che il comparativo giusto non è di maggioranza, bensì di uguaglianza.
Dogman. Regia di Luc Besson con Caleb Landry Jones, Jonica T. Gibbs, Marisa Berenson, Michael Garza e Clemens Schick, in uscita nelle sale il 5 ottobre distribuito da Lucky Red.
Tre stelle e mezzo