The Handmaid’s Tale 2×04 The Other Woman, la recensione: io e l’altra, Dio e la Colpa

The Handmaid's Tale 2x04

La 2×04 di The Handmaid’s Tale, intitolata The Other Woman, ci ritrasporta di colpo nell’universo violento di Gilead, dopo averci illuso con le speranze di una fuga. Si compiono lo spossessamento del corpo e dell’esperienza materna di June e, tramite la retorica della Colpa, lo sdoppiamento e infine l’alienazione della protagonista, che diventa Difred. E basta.

Al punto di partenza

Niente. Chi aveva sperato in una fuga definitiva di June (Elisabeth Moss) dall’angosciante mondo di Gilead si è trovato probabilmente con le mani nei capelli in preda alla disperazione più nera. La 2×03 di The Handmaid’s Tale si era conclusa con il fallimento della fuggitiva, ma qualche speranza di poter assistere quanto meno ad un diverso corso di eventi, magari con l’introduzione di nuovi personaggi, l’abbiamo preservata, diciamolo. O forse ci siamo arrampicati sugli specchi, semplicemente. L’inizio dell’episodio quarto della seconda stagione (The Other Woman) ci ritrasporta, traumaticamente, nell’universo asfissiante e violento da cui, assieme alla protagonista, anche noi pensavamo di essere ormai lontani. Non c’è nemmeno tempo per elaborare davvero il fatto: questa puntata di The Handmaid’s Tale si apre subito con la protagonista di nuovo prigioniera, incatenata ad un letto e abbandonata ai suoi pensieri, sotto lo sguardo glaciale della temibile Zia Lydia (Ann Dowd). Increduli, dobbiamo accettare la verità: eccoci di nuovo, Gilead. Eccoci al punto di partenza.

Incubatrice umana, la donna come utero

Si interrompe così, bruscamente, il percorso di June verso una riappropriazione di sé, mentale e fisica. Quella liberazione totale dal cancro di Gilead, che era ancora meta e non acquisizione finita, era stata disperatamente voluta dalla protagonista ed esemplificata da alcuni significativi gesti, che ora si ribaltano. Come in un incubo, ecco che tornano tutti i simboli della schiavitù di June, quei simboli ch’ella aveva distrutto come primo passo per una liberazione totale: ecco di nuovo il marchio sull’orecchio, che la rende di nuovo bestia da macello, animale asservito e funzionale ad un sistema di riproduzione; ecco ricomparire l’odiato vestito rosso, che sembra ormai essere una seconda pelle per la protagonista, che le viene ricucita addosso con tutta la violenza di un’identità imposta, l’unica possibile nel nuovo mondo: quella di Ancella, incubatrice umana, involucro di carne utile allo scopo di dare figli alla Patria e a Dio, e nient’altro. Nel corso dell’episodio questa verità ci viene sempre riproposta, con più crudezza di prima: è chiaro che June esiste in quanto utero, in quanto capace di dare la vita ad un’altra creatura. E nemmeno per se stessa. Quell’utero è visto sganciato dal corpo ‘materno’, è qualcosa di altro rispetto a lei e alla totalità delle sue esperienze e desideri. Inizia così – anzi, si completa – lo sdoppiamento finora imposto e ora assorbito dalla protagonista.

The Handmaid's Tale
Una scena di The Handmaid’s Tale in cui si celebra un cerimoniale tra Ancelle e Padrone

La maternità come esperienza divisiva

Uno dei temi centrali dell’episodio, anche se non il predominante, è quello della maternità, di nuovo. Solo nella precedente puntata The Handmaid’s Tale ci ha mostrato l’infanzia di June e il rapporto travagliato con la madre, risanato proprio nell’esperienza del dolore che restituisce consapevolezza. In quest’episodio, la maternità è presentata come esperienza divisiva tra donne, fonte di invidia, angoscia e ossessione. Cos’altro è Gilead se non un regime fondato sulla divisione dei ruoli sessuali portato al suo estremo? Ed ecco cosa accadrebbe in un mondo così fatto: gli uomini (privilegiati, non dimentichiamolo) al potere, unici esseri umani a tutto campo; le “Donne” ai vertici della piramide hanno una sola possibilità di avere uno scopo nella vita e dunque una legittimazione sociale: quello di essere madri, l’unico ruolo femminile possibile in un sistema così ordinato. Cosa accade allora se proprio loro, le donne privilegiate, sono incapaci di concepire la vita? Non resta che appropriarsi di quest’esperienza negata tramite altre donne, conquistando e schiavizzando i loro corpi. Allo stesso tempo Gilead è l’apoteosi del patriarcato e dell’odio della Donna sull’altra donna (maiuscole e minuscole non sono casuali). Solo tramite l’autoasservimento delle donne alleate – che di fatto rinunciano ad essere persone complete di loro libera iniziativa – può compiersi e funzionare questo sistema misogino e schiavista. Ed il perno è proprio l’esperienza materna.

Spossessata

Lo spossessamento dell’esperienza materna è la quintessenza della misoginia gileadiana e viene esercitata da uomini e donne, insieme. Anzi. Agli uomini tocca il ruolo di inseminatori, ma sono le loro donne che poi si animano intorno ad una serie di rituali grotteschi, in cui sembra quasi prevalere una dimensione allucinata, una psicosi collettiva. Le Padrone parlano tra loro come se stessero vivendo in prima persona la gravidanza, come se i loro cervelli e spiriti fossero connessi all’utero delle loro Ancelle. Questo crea una sensazione nello spettatore davvero complessa da definire, tra la nausea e il turbamento. Proviamo tutta l’impotenza di June, costretta ad assistere ai discorsi e alla vita che – contro la sua volontà – ruota attorno al suo bambino, nemmeno davvero suo, perché già d’altri ancor prima del concepimento stesso. Ma il grottesco teatrino può spingersi fino ad un certo limite: davanti all’inaccessibilità di fondo dell’esperienza materna, in tutto il suo mistero e la sua unicità, le Padrone crollano interdette. Basta nulla, una semplice affermazione: «Ieri ho sentito per la prima volta il bambino scalciare», afferma June. Gli sguardi di tutte di posano su lei, spiazzati. Serena (Yvonne Strahvoski) può fingere e autoconvincersi, ma la verità è una sola: l’esperienza di sentir crescere un’altra vita dentro di sé le è negata in maniera assoluta e questo la uccide. Nello spossessare June di quest’esperienza, la Signora Waterford commette un secondo stupro su di lei, se per stupro intendiamo l’annullamento fisico e mentale dell’altro in ogni sua autonomia. June è un corpo alla mercé di chi ne ha bisogno.

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In una scena di The Handmaid’s Tale, June piange disperata tra le braccia di Zia Lydia, convinta della sua colpa

Dio e la Colpa

Il tema cardine di questa puntata di The Handmaid’s Tale, però, è un altro: la Colpa. Assistiamo al dispiegarsi di tutta la migliore (o peggiore, dipende dai punti di vista) retorica cristiana (che poi di cristiano, in fondo, ha ben poco), deviata e spinta alle estreme conseguenze. Si crea uno strano slittamento tra ciò che si dice e ciò che ci viene invece mostrato: Zia Lydia parla di misericordia e amore di Dio per June, ma è una Grazia che in cambio vuole qualcosa, che pretende l’annullamento di sé, ginocchia piegate e una Colpa da espiare, una qualsiasi. Solo così la Grazia divina può aver senso ed essere necessaria. June è indotta a rileggere tutta la sua esperienza di vita alla luce di questo Dio che, silenziosamente, l’ha giudicata colpevole ma non l’ha abbandonata e ha anzi deciso di salvarla amorevolmente impartendole una lezione indimenticabile, per il suo bene, s’intende. La lezione è: non sei niente, eri una peccatrice vittima di te stessa, del tuo corpo e dei tuoi desideri. Io ho preso questo corpo e l’ho elevato, dandogli una missione alta, tramite l’esercizio della quale puoi diventare qualcuno ed essere meritevole di vivere, nonostante tutto. Con sguardo retrospettivo, June rilegge allora la sua intera vita alla ricerca di un peccato originale, e lo trova: l’amore con Luke, nato inizialmente in maniera adultera, fonte di sofferenza per la sua ex moglie.

Alienata

Si compie così lo sdoppiamento finale tra June e Difred. Capiamo allora che l’Altra Donna del titolo altri non è che l’anima piegata e violentata della protagonista, che ora prende definitivamente il sopravvento. June ha bisogno di alienarsi nel suo alter-ego dal vestito rosso e lo sguardo remissivo: ne ha bisogno per sfuggire al senso di colpa che la perseguita, ad una realtà troppo difficile da accettare e alla violenza quotidiana a cui è sottoposta. Vediamo la protagonista per la prima volta piangere disperata tra le braccia di Zia Lydia, che le ha appena spiegato che tutto ciò che ha commesso – il peccato – appartiene a quella June che lei ha rivendicato durante tutto l’episodio («il mio nome è June!») e non alla donna che può e deve essere. Alienarsi nell’Ancella, rinunciare a consapevolezza, autocoscienza e autonomia risulta allora essere la scelta più saggia, quella meno dura. June smette di combattere. Quel vestito rosso che è stata costretta suo malgrado a indossare di nuovo diviene la sua nuova e definitiva identità. Assistiamo increduli al repentino cambiamento e partecipiamo al dramma psicologico dell’Ancella, disturbati dal suo sguardo perso nel vuoto, dalle sue frasi fatte, pronunciate come fosse un automa. Quello che abbiamo davanti non è più una persona: è un corpo svuotato da ogni desiderio, volontà di potenza e coscienza, assoggettato definitivamente alla violenza di Gilead e dei suoi discorsi che, come metastasi, sono arrivati ormai a cuore e cervello, infettando tutto. La vittima ha bisogno di appigliarsi ad una colpa inesistente per riscrivere la propria storia e poter dare un senso al dolore che sta vivendo e che, altrimenti, sarebbe del tutto gratuito. Siamo lontani da quel “Nolite te bastardes carborundorum“. Non lasciare che i bastardi ti schiaccino, June. Resisti!

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Elisabeth Moss (June) in The Handmaid’s Tale

The Handmaid’s Tale è una serie ideata da Bruce Miller e tratta dall’omonimo romanzo della scrittrice Margaret Atwood. Distribuita da Hulu, in Italia la serie è disponibile su Timvision, con due episodi ogni giovedì. Con Elisabeth Moss, Alexis Bledel, Ann Dowd, Joseph Fiennes, Yvonne Strahovski, Madeline Brewer, O. T. Fagbenle, Max Minghella, Samira Wiley. Continuate a seguirci per le recensioni di tutta la seconda stagione di The Handmaid’s Tale.

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