La nostra recensione di Il Monaco che vinse l’Apocalisse, dramma storico che racconta le gesta di Gioacchino da Fiore, interpretato da Francesco Turbanti: la vita del teologo calabrese è già drammaturgicamente affascinante, perché quindi questa pomposità?
Se con Francesca Cabrini ci siamo spinti nella New York del primo ‘900, con Il Monaco che vinse l’Apocalisse torniamo indietro nell’Italia del dodicesimo secolo. Sempre però di figure religiose di alto livello parliamo, che per fortuna nel caso del film diretto dall’italianissimo Jordan River almeno evita in gran parte il rischio dell’agiografia. Il problema però evidente di questo dramma storico e biografico sta nel suo eccesso di lirismo e di pomposità che pervade i dialoghi, la direzione degli attori e la loro recitazione e la messa in scena tutta, rendendo purtroppo quasi del tutto impalpabile l’intrigante figura del teologo di origine calabrese.
L’uomo delle Sacre Scritture
30 marzo 1202. Joachim (Francesco Turbanti) si risveglia da un sogno apocalittico, è l’ultimo giorno della sua vita. L’anziano monaco svelerà al discepolo i segreti appresi vivendo la natura e il silenzio delle abbazie. Su montagne impervie fonderà sulla speranza il suo Monastero, che chiamerà “Fiore”. Scriverà su pergamena la profezia della ‘Terza Epoca’, iniziata nel Medioevo e protesa fino alla fine dei tempi. Un’era di piena libertà dello spirito e di progresso interiore. La grande risonanza del pensiero di Joachim raggiunge il cuore della Regina Costanza d’Altavilla (Elisabetta Pellini) che vuole essere da lui confessata.
Il Monaco accetta, ma la sovrana deve scendere dal trono per inginocchiarsi dinnanzi a lui. La capacità del Monaco di interpretare la profezia presto raggiunge anche Re Cuor di Leone, ovvero Riccardo I d’Inghilterra (Nikolay Moss), a cui spiegherà il significato del Drago a sette teste del Libro dell’Apocalisse. Joachim ritorna sulle montagne innevate per il suo nuovo viaggio, sapendo che ormai ha seminato radici forti e consapevole che “Fiore non è ancora frutto” ma “è la speranza del frutto”.
Una pomposità inutile
Chissà perché molto cinema italiano (e non solo) continua con la convinzione assurda, quanto anacronistica, che il Medioevo vada raccontato sempre e comunque con un taglio enfatico, pomposo, quasi da racconto epico quando va bene, oppure in maniera lugubre, disfattista, oscura quando va male. E chissà cosa ne penserebbe uno storico come Alessandro Barbero, uno che della lotta verso i luoghi comuni legati all’era di mezzo ne ha fatto una missione. Perché l’Italia del dodicesimo secolo che viene parzialmente rappresentata ne Il Monaco che vinse l’Apocalisse assomiglia per tono e per immaginario a quella di certi sceneggiati degli anni ’90.
Se c’è un merito che il film di Jordan River, pioniere del cinema tridimensionale italiano, ha è quello di provare a gettare nuova luce su una delle personalità più importanti del nostro Medioevo. Gioacchino da Fiore era sì un teologo, peraltro in avanti coi tempi e dal pensiero riformista inviso alla Chiesa dell’epoca, ma era anche uno scrittore, un filosofo, un pensatore a 360 gradi; persino il grande Dante Alighieri ha nei suoi confronti un debito mica da poco, dato che per la sua Divina Commedia si è ispirato al poema De Gloria Paradisi, debito che poi ha estinto collocando Gioacchino tra le anime del Paradiso. Il problema sta però nella scelta di rappresentazione, di tono e di intenzione.
Perché River, invece di asciugare e di provare ad estrarre il pensiero “gioacchiniano” attraverso il racconto cinematografico e le sue possibilità drammaturgiche, sceglie di sovraccaricare la storia con un’enfasi innaturale e scomposta, appiattendo i tanti argomenti (il ruolo del peccato e il suo rapporto con l’uomo, l’eterno scontro tra bene e male, l’Apocalisse vista sia attraverso l’occhio della religione che con uno sguardo socio-antropologico) e il tema del riformismo della Fede contro il suo reazionarismo. Il risultato non può che essere un film più pretenzioso di quello che probabilmente intende essere, nonostante l’onestà e il gran lavoro di ricerca.
L’arena medievale poco sfruttata
Forse sarebbe stato necessario avere degli sceneggiatori e non dei ricercatori alla scrittura, perché in più di un’occasione Il Monaco che vinse l’Apocalisse soffre di pressappochismo e di grossolanità nella rifinitura dei personaggi e della loro costruzione, ma anche nelle interazioni dialogiche e nella struttura diegetica. Inoltre anche l’arena medievale, ben ricostruita dal punto di vista tecnico e anche ben fotografata, rimane un po’ troppo sullo sfondo delle vicende, non dialoga con i conflitti che vengono messi in atto, diventa più che altro cartolinesca. Non aiuta la gestione di una voce fuoricampo opprimente, che non dà respiro allo spettatore né ne lascia alla narrazione costretta tra la declamazione di una verità filosofica e l’altra.
Quella di River è quindi una pellicola che soccombe sotto il peso della propria grandissima ambizione, perché non riesce a semplificare (che non vuol dire banalizzare) e a dare una forma meno pomposa, solenne ed enfatica alla propria materia narrativa. Se si è interessati alla figura di quest’uomo straordinaria vale comunque una visione, se non altro anche per godere delle bellezze naturalistiche e artistiche della nostra penisola oltre che per conoscere parte della vita e del pensiero di un grande intellettuale (non) moderno.
TITOLO | Il Monaco che vinse l’Apocalisse |
REGIA | Jordan River |
ATTORI | Francesco Turbanti, Nikolay Moss, Bill Hutchens, Elisabetta Pellini, Giancarlo Martini, G-Max, Yoon C. Joyce, Carmelo Giordano, Saverio Malara |
USCITA | 5 dicembre 2024 |
DISTRIBUZIONE | Delta Star Pictures |
Due stelle