Amate sponde, recensione: il Bel Paese raccontato con immagini e musica tra passato, presente e futuro

Amate sponde - Aragona, riserva Macalube (foto Archivio Luce)
Amate sponde - Aragona, riserva Macalube (foto Archivio Luce)

La recensione di Amate sponde, il nuovo documentario del regista Egidio Eronico che abbandona la parola per abbracciare l’immagine e il suono, raccontando un’Italia piena di contrasti sospesa tra passato, presente e futuro

Il Bel Paese là dove ‘l sì suona è il protagonista assoluto di Amate sponde, il nuovo documentario del regista Egidio Eronico già presentato sia alla scorsa Festa del Cinema di Roma in anteprima mondiale che allo scorso Torino Film Festival.

Benvenuti in Italia

Egidio Eronico ci conduce in un viaggio all’interno di alcuni delle città e dei luoghi più simbolici della nostra Italia attraverso le bellezze naturali, artistiche e architettoniche, il folklore e le tradizioni, la modernità e l’avanzamento tecnologico ma anche il degrado, la povertà, lo svilimento culturale e sociale. Dalla Sardegna alla Sicilia, passando per Lazio, Umbria, Emilia-Romagna fino ad arrivare a Veneto, Lombardia, Piemonte e Val D’Aosta l’occhio di Eronico fotografa attraverso la macchina da presa tutte le contraddizioni, i cambiamenti, le tradizioni immutabili e la poesia di un paese tanto bello quanto disgraziato. Il tutto senza pronunciare una sola parola, ma utilizzando soltanto la capacità narrativa dello sguardo e quindi delle inquadrature, della musica e dei suoni naturali.

Amate sponde - Val Gardena (foto Archivio Luce)
Amate sponde – Val Gardena (foto Archivio Luce)

Il potere delle immagini

La scelta di non utilizzare parole o un voiceover di qualche tipo è la prima, grande intuizione di Amate sponde che per modello cinematografico, estetico e “narrativo” sembra quasi rifarsi al celeberrimo Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, uscito ormai nel lontano 1982. Se però il film di Reggio insisteva sulla denuncia della deriva tecnologica e capitalistica a spese dell’ambiente, Egidio Eronico sceglie invece di raccontare un paese in tutta la sua complessità senza far sottintendere giudizi di merito o una visione troppo personale. Rimane quindi chirurgico, aiutato dalla fotografia ruvida e grezza ma anche calda e pulita di Sara Purgatorio e dal montaggio puntuale di Diego Volpi e lasci che siano le immagini a parlare da sé. Distese che paiono desertiche, vulcani, spiagge, foreste, fiumi, mari, laghi ma anche complessi industriali, città attraversate da brulicanti esseri umani, altiforni, impianti petrolchimici, robot e satelliti che vagano in orbita in uno spazio profondissimo e oscuro. E poi uomini, donne, bambini, animali e tutto l’effluvio di vita animata e non che il nostro paese contiene, tra bellezza e poesia, tra arte e un passato meraviglioso e ingombrante senza però dimenticare i lati oscuri rappresentati da povertà, degrado, abbandono, criminalità. Una tavolozza di tanti colori diversi, un quadro pennellato dall’universale al particolare, per poi tornare all’universale.

Amate sponde - Mamuthones a Mamoiada (foto Archivio Luce)
Amate sponde – Mamuthones a Mamoiada (foto Archivio Luce)

Il potere della musica

In questa scelta così irriverente e prorompente il ruolo della musica in Amate sponde diviene ancora più centrale e significativo. Le affascinanti partiture composte per il film dal bravissimo Vittorio Cosma sembrano per certi versi rifarsi ai brani di Philip Glass (che già aveva musicato l’intera trilogia Qatsi), ma prendono anche a piene mani dalla musica classica e ambient creando un cortocircuito visivo e sonoro che funge da tappeto e da raccordo tra immagine e melodia. Amate sponde procede quindi quasi come un concerto da camera, con passo deciso e felpato per tutti i suoi 75 minuti di durata fino ad una chiusura costruita sul silenzio e sulla morbidezza. C’è la musica di Bach e c’è il cinema di Ejzenstein (come lo stesso Eronico ha dichiarato) ma c’è anche un po’ della magniloquenza dell’ultimo Malick, qui priva però di spiegoni, di riflessioni verbose o simbolismi. E allora Eronico scarta tutto il resto, lavora sui suoni puri e sulle suggestioni ambientali e trova, o almeno ci prova, la verità in ciò che è vero e non artefatto ad hoc.

Amate sponde - Terni (foto Archivio Luce)
Amate sponde – Terni (foto Archivio Luce)

Un po’ troppo didascalismo

Dove però Amate sponde traballa un po’, non riuscendo a colpire totalmente il bersaglio, è nella giustapposizione e nella sovrapposizione di ambienti agli antipodi tra loro, come se lavorasse per contrappasso e analogia nello stesso tempo. La Palermo del quartiere Zen segue immediatamente la Milano di City Life, il progresso tecnologico dei laboratori di robotica precede immediatamente le immagini dei carretti trasportati dai migranti e così via, in una scelta di racconto prima e montaggio poi che appare troppo prevedibile e studiata a tavolino. Invece, quando Amate sponde si libera del suo didascalismo e si appella al caso più totale senza cercare di controllarlo o peggio, tentare di spiegarlo, il suo sguardo vola altissimo perché si traduce in un racconto inorganico e folle, selvaggio e libero da schemi e sovrastrutture. Capace perciò di fluttuare nel vuoto dello spazio, di raccogliere la forza delle onde in una singola inquadratura, di illuminare il sorriso di un bambino per incastonarlo nel tempo infinito, o almeno in quello finito di un taglio di montaggio.

Amate sponde. Regia di Egidio Eronico in uscita nelle sale il 14 marzo distribuito da Cinecittà Archivio Luce.

VOTO:

Tre stelle

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