Saint Omer, recensione: un’accusa di infanticidio nel legal drama che ha stregato Venezia

Saint Omer - Guslagie Malanga (foto Laurent Le Crabe)
Saint Omer - Guslagie Malanga (foto Laurent Le Crabe)

La recensione di Saint Omer, legal drama francese vincitore del Gran Premio della Giuria e del premio Luigi De Laurentiis all’ultima Mostra del Cinema di Venezia

Dopo aver trionfato alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia, dove s è aggiudicato sia il Gran Premio della Giuria che il Premio De Laurentiis alla migliore opera prima, Saint Omer sbarca finalmente nelle sale, diretto dalla pluripremiata documentarista Alice Diop, di cui trovate qui il nostro incontro e interpretato da Kayije Kagame e Guslagie Malanga. Un legal thriller che parla di razzismo latente e di giustizia ma anche di emancipazione femminile e divario sociale, con un passo cadenzato e uno stile vicino al documentario.

Il processo

Saint Omer, nord della Francia. Laurence Coly (Guslagie Malanga) è una donna senegalese ormai trasferitasi da diverso tempo in Francia, che viene accusata di aver ucciso la propria figlia di soli 15 mesi abbandonandola su una spiaggia di Berck-sur-mer durante l’alta marea e lascinadola annegare. Rama (Kayije Kagame) è invece una scrittrice incinta di pochi mesi che viene a sapere della storia di Laurence e decide di seguirne il caso, sperando di poterne ricavare il suo nuovo libro ispirandosi al mito di Medea. Durante il processo cominceranno a venire fuori tutte le verità, le menzogne e le contraddizioni di Laurence, a partire dalla sua turbolenta relazione con Luc (Xavier Maly) padre naturale di sua figlia che però non ha mai voluto riconoscerla fino ad arrivare alla sua vita di intellettuale e al rapporto con la sua famiglia natale.

Saint Omer - Kayije Kagame (foto Laurent Le Crabe)
Saint Omer – Kayije Kagame (foto Laurent Le Crabe)

Un film di conflitti

Saint Omer è un’opera costruita su di una serie di conflitti a più livelli. Il primo, quello più evidente e superficiale, è quello legato all’aspetto processuale della vicenda: Laurence è in conflitto con il procuratore uomo che l’attacca facendola sentire un’assassina senza scrupoli, una bugiarda, una manipolatrice ma anche con il suo ex-compagno Luc, il quale mente spudoratamente per salvare la faccia e tentare di non passare come un codardo. È una dinamica comune nel film, quella dello scontro tra il mondo femminile e quello maschile, nonostante Saint Omer resti una pellicola di donne. Poi c’è un altro conflitto, più sottile: Laurence è una donna nera, immigrata per giunta, che vive in un paesino della Francia del nord, un posto di estrema destra, reazionario, non incline all’accoglienza o all’accettazione. Laurence è una donna colta, intelligente e ben educata che è riuscita a costruirsi una vita e un futuro dopo essere fuggita via dal Senegal a spese del rapporto con la sua famiglia, ormai irrimediabilmente compromesso. E, infine, un terzo conflitto ancora più profondo: quello legato alla maternità.

Ed è su questo conflitto che il film sceglie principalmente di soffermarsi, poiché il suo essere o essere stata madre regala al personaggio di Laurence una sfumatura maggiore, uno strato di umanità (o anche disumanità) che la rendono terribilmente imperfetta, dolente e per questo bellissima.

Saint Omer - Aurélia Petit (foto Laurent Le Crabe)
Saint Omer – Aurélia Petit (foto Laurent Le Crabe)

Un’opera dal passo lento

Nonostante sia un legal drama puro Saint Omer non ha nessuna intenzione di accelerare le rivelazioni o le svolte di trama, ma invece riesce a rendersi il suo tempo centellinando tutto: le azioni, le reazioni, i twist, i momenti di respiro. È un film che ha il passo lento e cadenzato di un dramma sobrio ed elegante, e sebbene questo tratto distintivo alle volte giochi a suo favore può in alcuni momenti risultare fin troppo autoriferito o non necessario. Costruito come un ibrido tra un documentario e un’opera di forte impianto teatrale, Saint Omer è un film di personaggi prima ancora che di persone, uno studio spesso puntuale e preciso di come il genere sessuale, l’etnia o il background socio-culturale di una persona possa purtroppo influenzare un giudizio che dovrebbe essere super-partes. Una pellicola di grande fissità, a cui onestamente un po’ di sguardo cinematografico manca, e che scruta con minuzia chirurgica i volti e le espressioni soppesando le parole.

Saint Omer - Kayije Kagame e Salimata Kamate (foto Laurent Le Crabe)
Saint Omer – Kayije Kagame e Salimata Kamate (foto Laurent Le Crabe)

Storia di una madre

Ma Saint Omer è anche un film sulla maternità, o più precisamente su cosa possa voler dire essere una madre. Quello he Laurence commette è un crimine orribile, certo, ma il film non è tanto interessato al crimine in sé o ai motivi che hanno spinto questa donna a commetterlo, quanto piuttosto alle conseguenze che questo crimine ha su un’intera comunità. Al suo impatto. Nel farlo Alice Diop ragiona sul senso della maternità, abbracciando due donne e madri diverse; una è stata madre e ci ha rinunciato nel modo più violento possibile forse per paura, l’altra sta per diventarlo ed è ugualmente terrorizzata. Cosa fare allora?

Di risposte il film non ne dà, cosiccome non rende neanche noto il verdetto della sentenza, ma quello che ci dice tra le righe è che per essere madri forse bisognerebbe prima essere donne. Donne magari incompiute, alla ricerca del proprio sé e del proprio posto nel mondo ma libere. Perché la libertà non ha nulla a che vedere con la sentenza di un tribunale, ma comincia dallo scappare dai propri demoni, dalle cose che ci tengono incatenati e dalla volontà di cercare comunque la verità.

Saint Omer. Regia di Alice Diop con Kayije Kagame, Guslagie Malanga, Xavier Maly e Aurélia Petit in uscita oggi 8 dicembre nelle sale distribuito da Medusa Film.

VOTO:

Tre stelle e mezzo

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