Il nostro incontro con Alice Diop, regista e sceneggiatrice di Saint Omer, film vincitore del Gran Premio della Giuria all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, in uscita nei cinema: ecco cosa ci ha raccontato
Nel nostro incontro la regista e sceneggiatrice Alice Diop ci ha parlato di Saint Omer, film vincitore del Gran Premio della Giuria e del Premio Luigi De Laurentis per la miglior opera prima all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Tra questioni sociali, razzismo, maternità e indipendenza femminile il discorso ha toccato molti degli argomenti del film, con uno sguardo a Pasolini.
Perché parlare della dignità femminile attraverso una storia così piena di ambiguità?
Ci sono una miriade di interpretazioni possibili, perché tutto ciò che dico è frutto di un’interpretazione diversa. Spesso la gente condivide con me la propria interpretazione del film chiedendomi quasi di validarle, ma per me è estremamente complesso perché alle volte le condivido, altre volte invece sono molto distante da ciò che si pensa riguardo al mio film. Per me è molto difficile parlare di questo film proprio perché ho voluto mettere tutto ciò che penso dentro al film, ho pensato alla messinscena del film come modo per accogliere tutte queste interpretazioni. Al punto che il personaggio principale del film è lo spettatore stesso, perché è nella stessa posizione di chi nel film assiste al processo stesso. Ci sono lunghi piani sequenza nel film, è un’opera creata affinché chiunque la veda possa vivere un’esperienza vera e propria ed è il modo migliore e più preciso per esplorare la psiche così complessa di questa donna.
Com’è stato collaborare a questo film con la scrittrice Marie Ndiaye?
Ho scelto Marie perché è una scrittrice che lavora sul mistero dell’animo umano, i suoi libri si possono riassumere con una sola frase ma questa frase non vorrà mai dire nulla, perché viene scritta in una lingua appositamente inventata per indagare le profondità dell’animo umano. Ho voluto lavorare con lei anche perché volevo circondare il mistero del personaggio di Laurence Coly, un mistero che non ha bisogno di essere scoperto o svelato ma semplicemente accolto. Confrontarci col mistero di questa donna senza capirlo ci obbliga a scendere nell’oscurità che appartiene a tutti noi, e quindi metterci in discussione come esseri umani. Ad esempio la maternità col suo lato tabù, il rapporto con le nostre madri, tutti argomenti scomodi e difficili che ci mettono sempre un po’ in imbarazzo e in difficoltà ma che invece andrebbero affrontati.

Alla fine di questo processo s’intravede la città di Saint Omer che dà il titolo al film. Come mai il dato geografico e spaziale ha tutta questa importanza nella storia?
Da un lato c’è stato puramente un lato documentaristico, perché Saint Omer è stata la cittadina in cui il vero processo si è svolto. Dall’altro lato, però, è anche una dimensione simbolica perché si parla del processo ad una donna nera, colta, un’intellettuale, che avviene in un piccolo borgo della Francia del nord, un borgo di destra e fortemente reazionario. Ad esempio tutti i giurati del processo non sono interpretati da attori professionisti, ma bensì da gente del posto vera; queste persone hanno vissuto il processo vero, che è durato per settimane, hanno dovuto assistere all’intolleranza, al razzismo latente di alcuni degli avvocati e dei procuratori e quindi dal punto di vista emotivo tutte le loro reazioni sono vere, come le lacrime che si vedono ad un certo punto del film. Per loro è stato quasi catartico rimettere in scena questo processo finto, soprattutto dopo aver assistito o partecipato a quello vero.
Perché usare la Medea di Pasolini? È una sorta di tramite tra Africa e Francia, quello di usare il mito greco?
In questa scelta c’è forse più di quanto sappia, ma quello che so è che Pasolini è stato un cineasta e un intellettuale fondamentale anche nella mia formazione. La sua Medea mi permette di relazionarmi al meglio, dal punto di vista formale, con il mio modo di fare cinema senza parlare del rapporto tra finzione e documentario che c’era anche nelle opere di Pasolini stesso. D’altro canto quello di Medea è un mito universale che riguarda la questione dell’infanticidio, e quindi si adattava perfettamente al tipo di storia che volevo portare sullo schermo e al caso specifico di questo fatto di cronaca. Ciò che però mi interessava davvero non è però il fatto di cronaca in sé, ma piuttosto la dimensione antologica che si crea attorno ad esso.

Il film rimane ambiguo, nel senso che non si sa se la protagonista verrà effettivamente condannata o meno. Lei come si immagina la risoluzione di quest’ambiguità, che tipo di esito avrebbe desiderato, idealmente parlando?
La finalità del film non è quella di sostituirsi al giudizio legale o morale, bensì quella di permettere allo spettatore di accarezzare la psiche di questa donna e le sue motivazioni. Ognuno potrà farsi la propria opinione, ma è importante non giudicare per me. Se lei dovesse meritare la galera o no sarà lo spettatore a deciderlo per sé, a me interessa il momento in cui il pubblico ministero legge l’atto d’accusa e la sua avvocatessa fa la sua arringa finale. Il viaggio dello spettatore per arrivare a quei due momenti è quello che davvero mi interessa di questa storia.
Durante la scrittura del film avete incontrato i personaggi reali o magari letto gli atti del processo? E in secondo luogo il film è dedicato a tutti i migranti, uomini o donne, che vivono questa condizione di invisibilità?
Non abbiamo incontrato nessuno dei personaggi reali del processo né letto gli atti, ma ho assistito personalmente al processo e tutto quello che si dice nel film è quindi autentico. Questo film non è nato per il fatto di cronaca in sé, ma sono i lati mitologico, tragico e analitico che mi interessava portare in scena. Ho voluto realizzare questo film per creare il ritratto di una donna nera colta, intellettuale ma anche piena di fragilità e volevo che tutte le donne, migranti o no, nere o no, potessero identificarsi in qualche modo con lei e magari chiedersi cosa avrebbero fatto al suo posto. Questa per me è la condizione universale che mi ha spinta scrivere Saint Omer.
Il film uscirà nelle sale l’8 dicembre distribuito da Medusa Film in collaborazione con Minerva Pictures.