Pantafa, recensione: Kasia Smutniak in un horror interessante che ruba dal folklore abruzzese

Pantafa - Kasia Smutniak (foto di Christian Nosel)
Pantafa - Kasia Smutniak (foto di Christian Nosel)

La recensione di Pantafa, opera seconda del regista Emanuele Scaringi con Kasia Smutniak e la piccola debuttante Greta Santi: un folk horror ben girato che rinuncia ai jumpscare in favore di un’atmosfera malsana

A cinque anni dal suo debutto in sala con l’adattamento di Zerocalcare il regista Emanuele Scaringi torna  con un film di genere purissimo, Pantafa. Un folk horror a tutti gli effetti ambientato in un immaginario paesino dell’Abruzzo (ricostruito però nel Lazio) che ha come protagoniste assolute Kasia Smutniak e la giovanissima esordiente Greta Santi, che nel film interpreta sua figlia. Una pellicola dalla messa in scena curatissima a partire da fotografia e scenografie che utilizza il dialetto autoctono e alcuni tradizioni locali per essere il più aderente possibile alla realtà, ma che cade soprattutto nel terzo atto in alcune derivazioni di sceneggiatura rinnegando il folklore locale in favore di un’apertura verso immaginari altrui.

Non dormire

Marta (Kasia Smutniak) si trasferisce insieme a sua figlia Nina (Greta Santi) a Malanotte, un piccolo paese dell’entroterra abruzzese. La bambina da qualche tempo soffre di paralisi ipnagogiche, un disturbo del sonno che può portare ad avere stati allucinatori, ed è per questo (ma non solo) che Marta ha pensato che un po’ di aria di montagna e di lontananza dalla frenesia cittadina possano giovare alla piccola. La casa in cui si trasferiscono però è tutt’altro che accogliente, nonostante le rassicurazioni dell’anziana proprietaria di nome Orsa (Betti Pedrazzi), e per le strade di Malanotte non si vedono mai bambini. Quando i sintomi di Nina cominciano a peggiorare, la piccola rivela di intravedere una figura spettrale che ogni notte l’assale nel proprio letto sdraiandosi sopra di lei e impedendole di respirare. Per Marta sarà ogni giorno più difficile trovare il modo di fare la cosa migliore per la sua bambina, e l’accoglienza fredda e inospitale degli anziani abitanti di Malanotte non fa che peggiorare la situazione. La conoscenza di Andrea (Mario Sgueglia) si rivelerà allora per Marta e Nina fondamentale per la loro sopravvivenza, soprattutto perché la Pantafa è in agguato ad ogni calar del sole e ha ormai puntato i suoi gelidi occhi su Nina.

Pantafa - Kasia Smutniak e Greta Santi (foto di Christian Nosel)
Pantafa – Kasia Smutniak e Greta Santi (foto di Christian Nosel)

Alla ricerca del folklore

L’operazione portata avanti da Emanuele Scaringi è una ventata di necessaria aria fresca nel nostro panorama cinematografico di genere, soprattutto se consideriamo il fatto che il cinema del nostro paese raramente ha attinto dal pozzo ben ricolmo di leggende e miti del folklore popolare. Per il suo secondo lungometraggio ha quindi scelto di rendere protagonista, o meglio antagonista della storia la figura spettrale e misteriosa della Pantafica, una donna dal volto demoniaco che nell’immaginario abruzzese disturba il sonno di grandi e piccoli togliendo letteralmente loro il respiro. Pantafa è quindi la rappresentazione filmica dello spettro ma anche di tutti quei simbolismi che lo spettro porta con sé, come ogni buona leggenda che si ripetti. In questo caso il blocco del respiro è legato al senso di colpa, al peso insostenibile dei rimorsi e dei rimpianti ma anche dei ricordi più dolorosi, e come per Nina e sua madre Marta anche alla necessità di sfuggire ad una vita oramai scomoda e ad un passato che ad un certo punto dovrà presentare il proprio conto da pagare. Non a caso gli horror folkloristici sono sempre in qualche modo legati al passato, sia a livello diegetico che extra-diegetico, perché è il passato il uogo in cui certi demoni si annidano, certi mostri si nascondono in attesa di saltare fuori dall’oscurità e divorarci.

Pantafa - Kasia Smutniak e Mario Sgueglia (foto di Christian Nosel)
Pantafa – Kasia Smutniak e Mario Sgueglia (foto di Christian Nosel)

Un bel lavoro sull’atmosfera

Il pregio principale di Pantafa è sicuramente quello di rinunciare a soluzioni semplicistiche e banali, come l’abuso di jumpscare, per costruire invece mano a mano un’atmosfera di paura e incertezza più sottile ma in qualche modo efficace. Il paese di Malanotte tiene fede al suo nome, è un dedalo di vie antiche incastonate nella pietra e silenti, di bar e piccole botteghe che sembrano abbandonati a se stessi, di un vapore nebbioso e umido che penetra fin dentro le ossa e i polmoni gelandoci, preludio sinistro di quel che verrà dopo. Sembra un luogo partorito da King o Poe, ma c’è anche un certo rimando ad un horror più recente e più intellettuale come l’Hereditary di Ari Aster o il Babadook di Jennifer Kent, soprattutto nel rapporto al limite del morboso tra madre e figlia. Pantafa è un film, almeno nei primi due atti, di un’inquietudine nascosta e appena accennata ma presente che si nutre del potere della suggestione, della forza propulsiva della lingua dialettale arcaica e arcana, di inquadrature strette sulle persone alternate a inquadrature grandangolari sulla natura e i boschi che circondano Malanotte, ma anche sui luoghi più chiusi e raccolti come la camera da letto di Nina per aumentare l’effetto straniante e increscioso dello sguardo. Scaringi gioca quindi sull’assenza e non sulla presenza, in particolare quella degli altri bambini, e disegna un quadro orrorifico in cui il male si annida nel luogo più sicuro, quello in cui trovare ristoro e riparo dalle fatiche del giorno e dal mondo esterno.

Pantafa - Kasia Smutniak e Betti Pedrazzi (foto di Christian Nosel)
Pantafa – Kasia Smutniak e Betti Pedrazzi (foto di Christian Nosel)

La necessità di uno sguardo personale

Dove però Pantafa pecca è nella rappresentazione fisica del mostro, nel suo svelamento. La creatura partorita da Scaringi sembra infatti presa di forza da un horror giapponese (o da un suo remake americano) perché ricorda in maniera inequivocabile e dissonante mostri ormai entrati fin troppo nell’immaginario collettivo. Questo fa sì che il film perda la sua autenticità proprio nel momento in cui avrebbe dovuto spingere ancora di più sulla sua natura ancestrale e folkloristica locali, rendendo quindi tutto il terzo atto un marasma di situazioni e risoluzione dei conflitti esterni e ambientali già ampiamente esplorato altrove. Pantafa necessitava invece di uno sguardo personale a 360 gradi su quel mondo, un mondo che appartiene alla tradizione nostrana e che non ha bisogno di contaminazioni esterne perchè già abbastanza ricco e fervido di suggestioni. Nel tentativo di rendere quindi il film più appetibile ad un pubblico generalista meno avvezzo al genere, o meglio al sottogenere in questione, Scaringi perde l’ago della bussola e le coordinate della narrazione, finendo per rendere piatto un finale che altrimenti avrebbe potuto rappresentare una scelta molto più coraggiosa. Tra immaginazione che si mischia alla realtà del quotidiano contaminandola forse inesorabilmente e una riflessione sulle possibilità e i limiti della paura, Pantafa è un film che lascia solo un mezzo sorriso sulle labbra dello spettatore: c’è del buono in questa Malanotte, ma la strada affinché la paura parli interamente italiano o uno dei suoi dialetti è ancora lunga.

Pantafa. Regia di Emanuele Scaringi con Kasia Smutniak, Greta Santi, Mario Sgueglia, Betti Pedrazzi e Giuseppe Cederna, in uscita oggi 30 marzo nelle sale distribuito da Fandango.

VOTO:

Tre stelle

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