Venezia 80, Lubo, recensione: Giorgio Diritti dirige un film fin troppo multiforme su un’oscura pagina di storia

Lubo - Franz_Rogowski (foto di Francesca Scorzoni)
Lubo - Franz_Rogowski (foto di Francesca Scorzoni)

Da Venezia la nostra recensione di Lubo, il nuovo film di Giorgio Diritti con protagonista Franz Rogowski: un’opera fluviale e multiforme che prova a fare luce su una terribile pagina di storia dimenticando però il potere della sintesi

A tre anni dal racconto della vita del pittore Antonio Ligabue torna al cinema Giorgio Diritti con Lubo, liberamente tratto dal romanzo “Il seminatore” di Mario Cavatore, e in concorso a Venezia 80. Protagonista è il sempre più eclettico Franz Rogowski, qui chiamato ad interpretare il ruolo di un vero e proprio trasformista e ladro d’identità in cerca dei propri figli, vittime di un crudele programma di rieducazione nazista. Un film troppo lungo, fluviale e frammentato, capace però di regalare squarci di grande cinema.

Un padre e i suoi figli

Lubo (Franz Rogowski) è un nomade, un artista di strada che nel 1939 viene chiamato nell’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Poco tempo dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di prendere i loro tre figli piccoli, strappati alla famiglia in quanto Jenisch, come da programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Lubo sa che non avrà più pace fino a quando non avrà ritrovato i suoi figli e ottenuto giustizia per la sua storia e per quella di tutti i diversi come lui.

Lubo - Franz_Rogowski (foto di Francesca Scorzoni)
Lubo – Franz_Rogowski (foto di Francesca Scorzoni)

Cercare la verità

Un antico adagio arabo afferma come la strada verso la verità sia come una strada attraverso il deserto. Le oasi che incontriamo lungo il cammino servono a farci stare meglio dandoci conforto e protezione, ma ci distraggono perché la verità è fatta di sabbia ed è tutta intorno a noi. Non so se Diritti abbia mai sentito o se conosca questo adagio, perché molto del percorso di Lubo (inteso sia come film che protagonista) sembra rifarsi al senso del suddetto adagio. Il quinto lungometraggio del regista bolognese quattro volte premio David è infatti una marcia ininterrotta e solenne attraverso un deserto di inganni, bugie e verità indicibili per arrivare dall’altra parte, dove giace la verità.

Giorgio Diritti si addentra stoicamente nella questione storica legata al programma di riabilitazione nazionale per i bambini di strada, uno dei tanti lasciti nefasti del nazismo che prevedeva il rapimento di piccoli bambini figli di zingari o artisti di strada per “riprogrammarli” attraverso l’affidamento a famiglie in linea con lo spirito del terzo Reich. Una pagina di storia nerissima e fino a questo momento colpevolmente ignorata dal cinema “di massa”, che Diritti recupera in un film dall’andamento lento e fluviale che attraversa due decenni tra Austria, Svizzera e Italia, smascherando gli effetti pestilenziali della discriminazione e del pregiudizio in grado di infettare la società e i suoi stessi figli.

Lubo - Franz_Rogowski (foto di Francesca Scorzoni)
Lubo – Franz_Rogowski (foto di Francesca Scorzoni)

Costruzione e ricostruzione

La ricostruzione d’epoca operata in Lubo è imponente per dedizione e precisione, e questo si riflette in una cura maestosa per costumi, scenografie, fotografia e tutto il resto del comparto tecnico. È evidente come Diritti abbia voluto fare le cose in grande, anche dal punto di vista del torrenziale minutaggio, cercando di raccontare tutti gli aspetti di una storia in cui il lato finzionale e quello reale potessero convivere assieme; nel farlo però di tanto in tanto perde la bussola del film, si lascia andare a troppe digressioni che spostano il fuoco sia tematico che diegetico (gran parte del secondo segmento in Svizzera) e che servono soltanto a giustificare la durata eccessiva.

In questo senso un lavoro di taglio più certosino al montaggio avrebbe giovato senz’altro alla pellicola, permettendole anche di lavorare meglio con la propria costruzione dal basso invece di costringere poi regista e sceneggiatori ad affrettare la risoluzione con un terzo atto frettoloso e meno potente di quanto avrebbe potuto essere. Perché quando Lubo ritrova la propria raison d’être torna a far palpitare cuore e cervello, anche attraverso la forte umanità che imprime ai propri personaggi costretti ad adattarsi prima ad un mondo sull’orlo dell’oscurità incombente, e poi ad un mondo che quell’oscurità l’ha superata ma che ne è stato irrimediabilmente contagiato per sempre.

Lubo - Franz_Rogowski (foto di Francesca Scorzoni)
Lubo – Franz_Rogowski (foto di Francesca Scorzoni)

Un film multiforme

Parte quasi come un revenge movie e ben presto si adagia anche sui territori del war movie, ma è anche la storia d’amore di un padre verso i propri figli e un film di denuncia mascherato da dramma storico. Tante anime abitano il corpo di Lubo, si intersecano per poi congedarsi man mano. È un suo pregio ma anche con un suo difetto, in quanto nell’avere così tante identità diverse finisce per perdere la propria. Fortunatamente Diritti è sufficientemente bravo da evitare che il film naufraghi dopo un secondo atto così incerto, ma a quel punto la rotta è già stata impostata e la nave non può che non approdare al porto sperato.

Ed è un peccato che sia mancato il controllo proprio nel momento in cui sarebbe più servito, ma si sa che quando ci si avventura in mare (o nel deserto) il rischio di sbagliare strada è molto alto. Il cinema italiano ha comunque bisogno di registi disposti ad effettuare una traversata così ardua e complessa, e sicuramente Giorgio Diritti è uno di questi. Teniamocelo/i stretto/i.

Lubo. Regia di Giorgio Diritti con Franz Rogowski, Valentina Bellè, Christophe Sermet, Noemi Besedes e Joel Basman, in uscita nelle sale il 9 novembre distribuito da 01 Distribution.

VOTO:

Tre stelle

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci qui il tuo nome