JoJo Rabbit, la recensione: un racconto di (de)formazione nazista

JoJo Rabbit

A metà strada tra l’indipendenza degli esordi e la successiva svolta major con il Thor della Marvel, Taika Waititi realizza con JoJo Rabbit un elegante esercizio di stile che tratta il nazismo con mano leggera e punge ma non troppo. E che, alla fine, si rivela solo in parte – nell’ultima – il film che avrebbe potuto essere.

Affrontare il nazismo con toni leggeri

JoJo Rabbit segna il ritorno di Taika Waititi ad un progetto più personale, dopo l’importante esperienza di Thor: Ragnarok e immediatamente prima di Thor: Love and Thunder per la Marvel. Non torna però sui lidi adorabilmente demenziali del suo primo What We Do In The Shadows. Che l’autore abbia alzato decisamente il tiro appare infatti ovvio anche dando una rapida scorsa alla sinossi. Si parla di nazismo con toni leggeri e la mente non può non andare ai due precedenti più illustri: il capolavoro chapliniano Il grande dittatore e il Mel Brooks di Per favore, non toccate le vecchiette. Modelli irragiungibili, certo, ma utili a dettare le coordinate di un approccio alla commedia se non proprio necessario, almeno auspicabile in questi tempi di pericolosi rigurgiti destrorsi.

La trama

Il film racconta la storia di Johannes “Jojo” Betzler (Roman Griffin Davies), un bambino di dieci anni fortemente attratto dall’immaginario nazista, nella Germania a un passo dalla cocente sconfitta che sta per porre fine alla Seconda Guerra Mondiale. Dopo un incidente con una bomba durante un campo d’addestramento per giovani nazisti, il ragazzino scopre che la madre (Scarlett Johannson), a sua insaputa, sta dando rifugio a una giovane ebrea (Thomasin McKenzie). Inizialmente confuso tra la curiosità per questa ospite inattesa e i richiami all’ordine del suo amico immaginario Adolf Hitler (Taika Waititi), JoJo inizia a riflettere sull’insensatezza di una cultura abbracciata più per gioco che non per reale convinzione.

JoJo Rabbit - Roman Griffin Davies, Taika Waititi e Scarlet Johannson
Il piccolo Roman Griffin Davis a tavola con la “mamma” Scarlett Johannson e l’amico immaginario Adolf Hitler/Taika Waititi

L’utilizzo di Waititi dei richiami al nazismo

Fin da subito è chiaro come la messa alla berlina dei principi fondanti la cultura nazista non sia il principale obiettivo di Waititi, più interessato invece al racconto di formazione tout court. Poca la satira, infatti, mentre a connotare il racconto intervengono toni più fiabeschi, per più di un verso riconducibili all’estetica delicata, sognante e immancabilmente a tinte pastello di Wes Anderson e, in particolare, al suo Moonrise Kingdom. Prova ne sia il fatto che l’utilizzo ludico dei vari richiami al nazismo non lavora mai in virtù di un loro ribaltamento di senso – come avveniva, ad esempio, ne La vita è bella di Benigni – bensì attraverso la presentazione di questi come già ridicoli di per se stessi.

Il punto di vista del piccolo protagonista

Così l’Hitler interpretato da Waititi non fa mai davvero paura. Come non sono mai in alcun modo minacciosi, perché troppo sopra le righe, né lo sgangherato capitano Klenzendorf (un Sam Rockwell, come sempre, magistrale) né, tanto meno, la goffa ispezione domestica della Gestapo. In tal modo l’autore neozelandese mette subito in chiaro come il punto di vista privilegiato sia indiscutibilmente quello del piccolo protagonista, al quale fa da contrappunto con alcune, sporadiche, intrusioni di una realtà dominata comunque da sentimenti di violenza, come le immagini dei dissidenti impiccati in pubblica piazza. Ne risulta una prima parte più leggera, benché leggermente indecisa sulla direzione da prendere.

JoJo Rabbit - Roman Griffin Davies e Thomasin McKenzie
Roman Griffin Davies e Thomasin McKenzie in una scena di JoJo Rabbit

Un inaspettato colpo di scena

Poi, man mano che la malinconia, tipica di ogni coming of age, prende il sopravvento sull’umorismo surreale e anche le apparizioni del Führer immaginario si diradano, JoJo Rabbit imbocca una sua via più compiuta e inizia a toccare le giuste corde facendosi via via più doloroso. C’è proprio uno switch, immediatamente successivo a un inaspettato colpo di scena, dopo il quale la farsa iniziale, per forza di cose, non trova più alcuno spazio. Ed è proprio lì che lo stile di Waititi si dimostra una sintesi perfetta tra l’indipendenza degli esordi e il suo nuovo status di enfant terrible del mainstream (che più mainstream non si può). Ora, se lo scarto tra le due metà del film non fosse così netto e la prima non peccasse di un certo eccesso di furbizia, forse staremmo parlando di un capolavoro.

In conclusione

E invece no. L’impressione è che Jojo Rabbit sia solo in parte – nell’ultima appunto – il film che avrebbe potuto essere. Perché mostrare il nazismo come ridicolo sin dalla sua prima lettura depotenzia l’elemento dissacrante del quale la satira, di qualsiasi forma o colore, non può fare a meno. Restano però un interessante esercizio di stile, oltre che una prova di notevole intelligenza produttiva e una splendida Scarlett Johannson, in un ruolo complesso che, se maggiormente approfondito, poteva essere la cartina di tornasole dell’intera opera. E resta – e qui pieno merito al talento registico di Taika Waititi – un epilogo bellissimo e commovente. Complice anche una splendida versione teutonica di Heroes di David Bowie.

JoJo Rabbit, diretto da Taika Waititi e intepretato dallo stesso Waititi, Roman Griffin Davis, Scarlett Johannson, Thomasin McKenzie, Sam Rockwell e Rebel Wilson, sarà in sala da giovedì 16 gennaio, ditribuito da 20th Century Fox.

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