La nostra recensione de Gli orsi non esistono, il nuovo film del regista iraniano Jafar Panahi vincitore del premio speciale della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia: un ritratto lucidissimo e impietoso di un Iran sempre più ostaggio della paura
Nella doppia veste di regista e protagonista Jafar Panahi è tornato al cinema con Gli orsi non esistono quattro anni dopo Tre Volti e in concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia, con un film girato con pochissimi mezzi e in condizioni estreme: il risultato è un pugno allo stomaco fatto di immagini e suggestioni fortissime in cui neanche il fetore della morte può entrare.
Tutto per una semplice foto
Gli orsi non esistono racconta due storie d’amore parallele, una metafilmica e l’altra reale, in cui gli amanti lottano contro ostacoli nascosti e inevitabili, la forza delle superstizioni e la meccanica del potere. Panahi interpreta sé stesso e si trova in un villaggio iraniano al confine con la Turchia mentre sta cercando di guidare la sua squadra che, nel frattempo, sta girando nella parte turca. Con l’aiuto del suo assistente alla regia, che gli fa visita tutte le sere e gli consegna le immagini registrate, Panahi racconta la storia di una coppia che cerca di ottenere dei passaporti falsi per scappare in Francia; per poterci riuscire Panahi è costretto a girare un finto film con loro come protagonisti, ma la donna comincerà ad avere dei problemi quando scoprirà che forse il marito non ha davvero intenzione di fuggire con lei. Allo stesso tempo, il regista viene coinvolto inconsciamente nella politica del villaggio in cui vive quando il Consiglio degli anziani gli fa visita chiedendogli di mostrare la foto che avrebbe fatto a una coppia del posto. Questa immagine mostra una relazione proibita tra un ragazzo e una ragazza in procinto di sposarsi con il figlio di uno degli anziani, e questa relazione clandestina potrebbe portare alla rottura del già fragile equilibrio del consiglio. Panahi afferma di non avere mai scattato la foto, ma ormai le cose si sono già messe in moto e non importa se lui abbia detto o meno la verità: qualcosa di terribile è già nell’aria.
Il potere delle immagini
Jafar Panahi è stato arrestato lo scorso luglio per la seconda volta dal governo iraniano , che gli ha inflitto sei anni di carcere con la conseguente impossibilità di poter uscire dal paese. Questa premessa è necessaria per parlare de Gli orsi non esistono, perché il film è un po’ lo specchio dell’odissea che il regista si ritrova a dover subire da ormai troppi anni. In questo film Panahi stesso si fa macchina da presa, caricando su di sé non solo la sporcizia, la crudezza e le asperità dei luoghi e delle persone che va a riprendere ma anche i silenzi, i sussurri e le grida di giubilo o di dolore. All’interno della sua macchina imbocca strade inesplorate e potenzialmente pericolose presidiate da contrabbandieri e trafficanti di esseri umani, poi ci porta con sé all’interno di una riunione del consiglio degli anziani, alla celebrazione di un matrimonio, non si tira indietro neanche quando deve mostrarci il lutto ma con la sensibilità e il giusto distacco dei grandi. È usando il suo corpo e la sua macchina da presa che ci permette di immergerci completamente nell’Iran contemporaneo, senza sconti o imbonimenti, nelle sua pieghe, nelle sue contraddizioni, nella sua cultura al tempo stesso accogliente ed estremamente reazionaria.
Il coraggio della verità
Le due storie d’amore che costituiscono l’ossatura diegetica del film fungono da pretesto per Panahi per aprire un discorso, o meglio una riflessione, sull’impossibilità di dover restare fermi senza poter attraversare un confine. Il confine turco, certo, ma anche il confine segnato da tradizione e rifiuto di adeguarsi ad una certa modernità, il confine tra ciò che è vero dietro la macchina da presa e ciò che è finto davanti ad essa, il confine tra legge e anarchia. In questo senso Gli orsi non esistono sembra essere stato costruito come un film dentro al film, in cui però anche il cinema non può prescindere da ciò che è la realtà. Panahi si apre alle varie maglie del racconto, lo incanala su un binario quasi documentaristico e poi sterza bruscamente verso la finzione, per ricominciare di nuovo. Costringe quasi i suoi attori ad entrare nel film, ad essere prigionieri del film, ma poi si ricorda di essere lui stesso un prigioniero. Nel voler rincorrere a tutti i costi la verità dello e nello sguardo Panahi non si risparmia mai, combatte contro i limiti anche tecnologici del luogo che lo ospita, affronta la violenza verbale e fisica degli uomini che incontra e fissa tutto su pellicola. Con coraggio, sì, ma anche con una certa dose di bulimia.
Andare avanti o tornare indietro
In una delle scene più rappresentative del film Panahi sta quasi per attraversare il confine turco. È notte, siamo su una collina da cui si intravede la skyline notturna di Teheran con le sue luci e la sua vita brulicante, ma dove siamo noi non c’è vita. È un posto isolato, arido, pericolosissimo visto che è continuamente pattugliato dai contrabbandieri, ma è anche un posto in cui poter rifiatare e guardare le cose finalmente dall’alto. Panahi però non è solo, ma è accompagnato da un suo assistente ed è proprio quest’ultimo a spingerlo ad andare via, ad abbandonare quell’illusione. Ed è un film che parla anche di illusioni. Le più pericolose sono quelle create dalla superstizione e dal folklore, dall’assenza di spirito critico, come quando una donna lo avverte che sul sentiero che sta per imboccare non ci sono orsi perché gli orsi non esistono. Esiste il male, però, e non c’è modo di sconfiggerlo ma solo di combatterlo, fotogramma dopo fotogramma, film dopo film. In fondo la vita non può sfuggire dall’ignoranza, dalla vendetta, dal desiderio di morte e neanche il cinema può. Il cinema può solo raccontare, mostrarci quello che si vede e quello che non si vede, insegnarci a coltivare un’opinione per liberarci dai nostri confini. E se la tragedia dovesse un giorno arrivare, se qualcuno dovesse rimetterci la libertà, il futuro o persino la vita solo per un amore sbagliato o per un’idea sbagliata, allora è il momento di fermare la macchina. Di tirare il freno a mano, di aspettare e poi di fare il nostro dovere: dietro c’è un paese che si ama ma da cui si vorrebbe fuggire, davanti una nuova vita che si brama.
Gli orsi non esistono. Regia di Jafar Panahi con Jafar Panahi, Naser Hashemi, Vahid Mobaseri, Bakhtiar Panjei e Mina Khosravani, uscito nelle sale oggi 6 ottobre distribuito da Academy Two.
Quattro stelle