Dostoevskij, recensione: i fratelli D’Innocenzo, un serial killer e il nichilismo

Dostoevskij - Filippo Timi e Federico Vanni
Dostoevskij - Filippo Timi e Federico Vanni

La nostra recensione di Dostoevskij, la nuova miniserie scritta e diretta dai Fratelli D’Innocenzo con protagonista Filippo Timi: anche l’Italia ora ha il suo True Detective? Non del tutto, ma l’esperimento rimane interessante

A tre anni da America Latina i D’Innocenzo si buttano sulla serialità con Dostoevskij, thriller cupissimo e nichilista già presentato con un buon successo alla scorsa Berlinale e interpretato da Filippo Timi, Carlotta Gamba, Gabriel Montesi e Federico Vanni. Un esperimento ad alto tasso di rischio quello dei fratelli romani, seppur in linea con il resto della loro filmografia, ma anche un tentativo di smarcarsi dal tipico immaginario del nostro thriller per abbracciare le atmosfere sulfuree, eteree e sporche dell’America rurale. Se il riferimento primario rimane il True Detective di Nic Pizzolatto, la digressione senza speranza nel male umano dei D’Innocenzo mescola Fincher, Sheridan e un po’ di Eastwood, tra sporcizia della lente e quella della mente.

Dostoevskij - Filippo Timi e Carlotta Gamba
Dostoevskij – Filippo Timi e Carlotta Gamba

Un poliziotto, un serial killer

In un lasso di terra scarno e inospitale, il poliziotto Enzo Vitello (Filippo Timi), uomo dal buio passato, è ossessionato da “Dostoevskij”, killer seriale che uccide con una peculiarità: accanto al corpo l’omicida lascia sempre una lettera con la propria desolante e chiarissima visione del mondo, della vita e dell’oscurità che Vitello sente risuonare al suo interno. Nel frattempo la vita di Vitello precipita quando sua figlia Ambra (Carlotta Gamba) si mette nei guai, mentre sul lavoro i suoi metodi poco ortodossi si scontreranno con quelli del giovane e ambizioso poliziotto Fabio Buonocore (Gabriel Montesi).

Dostoevskij - Gabriel Montesi
Dostoevskij – Gabriel Montesi

L’oscurità è solo l’inizio

Ce lo ha insegnato Dante, settecento anni or sono, che la discesa negli inferi della propria anima funziona solo se si è disposti ad affrontare il Diavolo in persona. Ce lo hanno poi ricordato in tanti nell’ultimo secolo al cinema, finché nel 2014 True Detective è diventato il termine di paragone essenziale delle storie cupissime e nichiliste sui demoni della propria mente e della propria anima. C’è però da dire che i Fratelli D’Innocenzo quest’ossessione verso l’oscurità l’hanno sempre avuta, sin dai tempi de La terra dell’abbastanza, e che nel corso della loro neanche decennale carriera questa ossessione è diventata via via più marcata, più disincantata e disillusa, più feroce.

Dostoevskij d’altronde lo dimostra, perché nel suo lento incedere fatto di tanti tempi morti eterei e trattenuti, di tramonti a metà sporcati da una luce freddissima, di paesaggi desolati e desolanti, di umanità ai margini di un mondo che tira dritto senza di essa, ebbene in un’arena così degradata tutto viene corroso e corrotto dal male. Un’oscurità che per gran parte delle oltre quattro ore di durata non avrà neanche un nome, e che quando ce l’avrà sarà solo un nome fittizio, non sufficiente, inerme rispetto alla complessità del cosmo.

In questo viaggio nei meandri infernali della mente e dell’animo umani i D’Innocenzo compiono un processo di spettrografia del corpo, ripreso anche durante una colonscopia del protagonista Enzo, e poi della sue psiche in un paio di scene in cui assistiamo visivamente alla sua frammentazione come se ci trovassimo ancora nel Get Out di Peele. Il rapporto disastroso con la figlia fatto di frasi sconnesse, di silenzi pesantissimi e di un odio/amore dicotomico dalla forma oscena non è altro che la sublimazione di un’anima divisa tra luce e ombra, anche per via del proprio lavoro, e della fine di una vita che è incombente, inevitabile, necessaria forse.

Dostoevskij - Filippo Timi
Dostoevskij – Filippo Timi

Tutto sa di morte

Perché Dostoevskij, prima ancora che un’opera sul male e sulla sua testimonianza, è un racconto di morte. Morte intesa proprio come fine della vita, di tutto ciò che nasce, cresce, respira, si riproduce, si annulla ma anche come fine dell’umanità, di tutto ciò che possiamo comprendere o afferrare dell’animale uomo. Un po’ come nell’opera di Pizzolatto qui ci si interroga sul senso della vita nel suo momento di messa in discussione, trovando nella morte di ogni cosa l’unica risposta possibile allo straziante decadimento dell’essere vivi. Una cupezza rara nel cinema e nella serialità italiane contemporanee che l’opera dei D’Innocenzo porta avanti con un certo fascino del macabro, ma anche con discreta sensibilità nonostante la poca autenticità di alcuni dialoghi.

Perché i meriti (e anche qualche demerito) della serie stanno tutti nella grande ambizione dei due fratelli romani, sospesa tra racconto dal sapore universale e attaccamento alle terre dell’Agro Pontino in cui la vicenda è ambientata. Terre che assumono una dimensione infernale, sospesa, distante dall’immaginario comune per diventare un anti-inferno di anime perdute e rimpianti, a cui Filippo Timi e il resto del cast (con particolare riferimento alla prova di Gabriel Montesi) provano ancora a regalare un pizzico di umanità necessario. Un’opera che guarda dritto nell’abisso e che non ha paura di farsi guardare, anche quando sbaglia, anche quando rischia di perdere la propria identità.

Guarda la nostra video intervista ai Fratelli D’Innocenzo

TITOLO Dostoevskij
REGIA Fratelli D’Innocenzo
ATTORI Filippo Timi, Gabriel Montesi, Carlotta Gamba, Federico Vanni
USCITA 11 luglio 2024
DISTRIBUZIONE Vision Distribution

 

VOTO:

Tre stelle e mezza

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