Animali selvatici, recensione: il ritorno di Cristian Mungiu tra integrazione e rabbia sociale

Animali selvatici- una scena del film (foto Bim Distribuzione)
Animali selvatici- una scena del film (foto Bim Distribuzione)

La nostra recensione di Animali selvatici, il nuovo film del regista Cristian Mungiu già approdato a Cannes 2022: si parla di integrazione, di razzismo e di rabbia sociale ma qualcosa non riesce ad esplodere fino in fondo

Dopo la presentazione a Cannes 2022 torna in sala il realismo sociale del regista rumeno Cristian Mungiu, già autore di titoli come 4 settimane, 3 mesi, 2 giorni e Occident, da cui questo Animali selvatici riprende alcuni argomenti ma che si propone allo stesso tempo come stacco piuttosto drastico dal punto di vita della rappresentazione visiva. Animali selvatici è un film feroce e ferino come il suo titolo, perché racconta di una società che sta man mano scivolando lontano dall’umanità dei suoi abitanti.

Ritorno a casa

Mancano pochi giorni al Natale e dopo aver lasciato il suo impiego in Germania, Matthias (Marin Grigore) torna nel suo multietnico villaggio in Transilvania. Il suo desiderio è quello di seguire con maggiore impegno l’educazione di suo figlio Rudi (Mark Blenyesi), che ha affidato troppo a lungo alle cure della madre Ana (Macrina Bârlădeanu), liberando il ragazzo dai timori irrisolti di cui è diventato preda. È preoccupato per il suo vecchio padre Otto (Andrei Finți), ma è anche ansioso di rivedere la sua ex-amante Csilla (Judith State). Quando un gruppetto di nuovi lavoratori viene assunto nel piccolo stabilimento che Csilla dirige, la pace della comunità viene turbata e gli adulti cadono preda di paure ancestrali mentre frustrazioni, conflitti e passioni irrompono facendo breccia nella sottile facciata di apparente calma e comprensione.

Animali selvatici- una scena del film (foto Bim Distribuzione)
Animali selvatici- una scena del film (foto Bim Distribuzione)

Uomini bestiali

Quand’è che siamo uomini e quando siamo bestie? Se lo chiedeva John Locke quattrocento anni fa, ma la risposta è probabilmente ancora lungi dall’essere definitiva. Se lo chiede anche il regista (ormai assurto quasi allo status di culto) Christian Mungiu con questo suo Animali selvatici, che solo in apparenza ha nel titolo la rispost. Perché tutta la costruzione del film mette di fronte uomini e donne dalle idee e dalle ideologie profondamente diverse, sebbene radicate nello stesso territorio e nello stesso humus culturale, che però devono per forza trovare un punto d’incontro tra opposizioni così estremamente opposte per salvare proprio quel paese, quella cultura, quella casa e quella tradizione che li accomuna. Nel loro scontrarsi Mungiu trova il pregiudizio, il razzismo malcelato, l’ignoranza di alcune posizioni e la ragionevolezza di altre, la paura e soprattutto l’incapacità di aprirsi all’altro, al diverso, che sia un uomo o un pensiero. Delle creature quasi mitologiche, che hanno tratti bestiali e animaleschi nel corpo di esseri umani e che Mungiu dipinge ora con orrore, ora con affetto.

Animali selvatici- una scena del film (foto Bim Distribuzione)
Animali selvatici- una scena del film (foto Bim Distribuzione)

Il prezzo dell’incomunicabilità

Non è un caso che le lingue utilizzate in Animali selvatici siano così tante e diverse, e che i protagonisti spesso le utilizzino in maniera totalmente casuale quasi miscelandole le une con le altre senza soluzione di continuità. È li prezzo dell’incomunicabilità quello che tutti i personaggi di Animali selvatici pagano, un prezzo che si nutre letteralmente di un senso continuo di abbandono e di sfiducia da parte e nei confronti dello Stato, delle istituzioni, della società tutta. Ne è un esempio palese la lunghissima scena del confronto tra Csilla e la sua socia in affari con il resto degli abitanti, i quali chiedono alle due donne di cacciare via gli operai del Bangladesh dal panificio industriale. Una scena in cui tutti parlano senza parlarsi, senza trovare una continuità, un dialogo o persino un compromesso. Mungiu è quindi bravo ad entrare nelle profondità di questo confronto, e grazie ad un lungo piano sequenza a mostrarci senza filtri o ipocrisie cosa accade quando l’homo homini lupus -sempre di Locke- diviene realtà.

Animali selvatici - Marin Grigore (foto Bim Distribuzione)
Animali selvatici – Marin Grigore (foto Bim Distribuzione)

Nella Transilvania profonda

In una terra che ha generato miti mostruosi e favole oscure, il regista rumeno ambienta i suoi Animali selvatici, facendo così della Transilvania una vera e propria deuteragonista del film. Non è un caso che la cupezza asfissiante della fotografia di Vladimir Panduru ammanti l’intera storia di un’oscurità mai sopita, e non è neanche un caso che tutti gli interpreti recitino mezzo tono sopra la normale soglia della voce, anche quando discutono o il conflitto si alimenta. Animali selvatici è una pellicola che lavora sottopelle e sottotraccia, che non aggiusta sempre perfettamente il tiro del racconto ma che riesce a comunicare ferocia e dolcezza quasi nella stessa inquadratura, o nella stessa intenzione narrativa. Duro, durissimo e visivamente splendido procede per accumulo fino all’esplosione liberatoria del finale, un epilogo che in qualche modo livella i ruoli e le gerarchie per farci confrontare di nuovo con quegli animali selvatici che abitano i boschi e che ci ricordano come, in fondo, non siamo poi così diversi da loro.

Animali selvatici. Regia di Cristian Mungiu con Marin Grigore, Mark Blenyesi, Macrina Bârlădeanu, Andrei Finți e Judith State, uscito nelle sale giovedì 6 luglio distribuito da Bim Distribuzione.

VOTO:

Tre stelle e mezzo

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