Alla Mostra del Cinema di Venezia 2024, ospite della Campari Lounge, Pierfrancesco Favino ha tenuto una masterclass per giovani aspiranti attori: ecco le esperienze che gli ha raccontato
Pierfrancesco Favino, presente alla Mostra del Cinema di Venezia 2024 per il suo ruolo in Maria accanto ad Angelina Jolie, ha raccontato la sua esperienza come attore a dei giovani aspiranti in una Masterclass all’interno della Campari Lounge.
Raccontaci l’esperienza di Maria, in relazione con la recitazione in italiano.
È stata un’esperienza molto bella. Pablo Larraín era un autore che conoscevo e stimavo, un vero e proprio direttore d’orchestra. Bisogna considerare che spesso la preparazione del set può non coincidere con il set in sé per sé. Con Larraín è stato così.
La scena della partita a carte è stata improvvisata… ma lui cosa ti ha detto come impostazione?
Lui è sempre in macchina, operatore dei suoi film, tranne che con la steady. Mentre si preparava un set per un’altra scena lui mi ha chiesto di fare una scena in cui giocavamo a carte (con Alba Rohrwacher ndr) e ci ha lasciati liberi di giocare. Abbiamo girato parecchie scene così, che non sono nel film. Girava sempre tra di noi e ci dava suggerimenti. Abbiamo girato tre volte. Questa cosa ci ha unito molto come attori e come squadra, alla fine eravamo davvero una famiglia. Le scene in casa le abbiamo girate alla fine e quindi abbiamo avuto modo di costruire un senso di familiarità tra di noi.
A proposito del metodo di recitazione, ti è mai capitato di recitare senza avere un altro attore davanti, senza sapere la sua reazione alle tue battute? Ti aiuta conoscere la reazione dell’altro?
Non mi è mai capitato, però ho avuto la fortuna di poter lavorare con registi che sono stati in grado di comprendere la persona al di là dell’attore, di accettare l’essere umano che si nasconde dietro la macchina da presa e accoglierne la paura. L’antidoto per riuscire ad affrontare la paura – che accomuna tutti gli esseri umani – senza che diventi un limite invalicabile, è abbandonarsi ad essa attraverso la propria umanità. Attraverso la passione siamo in grado di liberarci di ciò che non è essenziale, immergendoci in ciò che siamo e facciamo, perdendo il controllo di noi stessi. Il nostro lavoro è costruire quel passo che ci consente di tuffarci nella paura e oltre di essa.
Questa esperienza ti capita anche a teatro?
A teatro c’è un flow continuo in cui ti perdi e c’è la presenza fisica del pubblico che ha un impatto diverso con la tua recitazione. Il cinema ha a che fare con tanti aspetti tecnici che spesso interrompono questo flow, e se non sei bravo a gestirlo e riprenderlo rischia di perdersi. Il nemico numero uno dell’attore è la didascalia, soprattutto quando descrive uno stato d’animo, ti distrae.
Pensi che essere molto onesti, avere una consapevolezza del proprio corpo, possa aiutare a combattere il proprio ego e mettere il personaggio prima?
C’è bisogno di una capacità profonda di leggere il testo. Onestà significa leggere fino in fondo una data scena e capire dove sta andando la storia, dove tu attore la devi portare, non “cosa sto facendo io”. Per me onestà sta nella capacità di mettere il personaggio prima di noi e capirlo senza inserire elementi che ce lo rendono più gradevole da interpretare.
C’è un’immagine che descrive bene cosa vuol dire mettersi all’interno del personaggio: quando cadi da una certa altezza ci metti un po’ a prendere consapevolezza del fatto e chiederti “oddio che ne sarà di me?” Ecco, per me recitare è mettersi nella condizione di chiedersi questo e sapere che la rete che ti salva sono il tuo partner e il testo. Il nostro errore spesso è che noi non ci facciamo domande, ci crediamo capaci di fare mille giri, non ci preoccupiamo di atterrare, convinti di saperlo fare.
Qual è il primo mattone da cui partire per la costruzione del personaggio?
Il primo mattone per costruire un personaggio è leggere la sceneggiatura come se non fossi tu a recitare, per capire che storia è, di cosa parla, poi inizi a farti delle domande. Io ho dei taccuini in cui divido argomenti di cui voglio scrivere e in cui appunto le risposte a queste domande. Non amo il termine personaggio preferisco essere umano. Mi chiedo cosa muove queste persone, quali sono le loro paure, il rapporto con gli altri personaggi.
Quanto è difficile levarsi le vesti di Pierfrancesco per diventare il nulla più totale davanti all’altro, ascoltarlo nel modo più profondo possibile e poi rispondere?
Per quanto mi riguarda è più difficile entrare nei panni di Pierfrancesco, nel senso che io non so cosa sono, non mi sveglio pensando “questo sono io”. Questo lavoro, che mi sono scelto, mi piace perché posso parlare tramite i personaggi che interpreto, soprattutto quando sono artisti, che mi permettono di esprimermi al meglio. È facile emozionarsi con loro. C’è tantissimo intorno a quello che facciamo, che ha a che fare con il mercato, con i soldi, con i vestiti… che servono eh, ma valgono poco in confronto al momento in cui sbatti contro l’arte di quell’artista e ne vieni colpito e ti emozioni in maniera unica.
Quanto è giusto mostrare la propria capacità camaleontica? E non solo proporsi sempre con la stessa faccia?
Io molto spesso non ho avuto la faccia giusta, ma altrettanto spesso nemmeno i registi sanno cosa stanno cercando. Un conto è essere camaleonte, un conto è indossare la maschera.
Mettere la maschera è dipingere sopra di noi per nascondere cose che non vogliamo si vedano, essere camaleonte significa riuscire attraverso una trasformazione a diventare quel personaggio. Sono due cose molto diverse, soprattutto per la nostra tradizione che ci spinge a indossare la maschera. Devi essere consapevole che proponendo la tua camaleonticità i registi, i casting director avranno più difficoltà a sapere chi sei. È una tecnica più utile per attori che hanno già dimostrato il proprio volto. Il consiglio pratico è: abbiate il coraggio di farvi vedere. Ai provini, la cosa migliore è quella di presentarsi come si è, perché molto spesso ti scelgono per come esci dalla porta.