Dalla Mostra del Cinema di Venezia 2022 ecco la conferenza stampa di The Hanging Sun – Sole di mezzanotte di Francesco Carrozzini, con Alessandro Borghi e Jessica Brown Findlay
È stato presentato Fuori Concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia, The Hanging Sun di Francesco Carrozzini con protagonisti Alessandro Borghi e Jessica Brown Findlay. Il film, ispirato al romanzo di Jo Nesbø, tratta i temi della mascolinità tossica e di una paternità abusiva.
Di questo romanzo che cosa ti ha attirato? Che cosa ti ha dato la possibilità di raccontare e come ci hai lavorato?
Francesco Carrozzini: Ci sono due cose che mi hanno molto attratto. Una è il personaggio. Si tratta di un uomo rotto che si chiede chi è e che cerca il cambiamento. In un momento in cui mi sentivo personalmente abbastanza perso nella vita, perché ho appena perso il mio secondo genitore, ho empatizzato molto con questo personaggio, l’ho trovato affascinante.
Stefano Bises: Nel romanzo c’erano tantissimi elementi che a distanza dalla pubblicazione rivelavano una contemporaneità e un’attualità abbastanza sorprendente. Il lavoro è stato soprattutto quello di cercare di valorizzarli in qualche modo e tirarli fuori.
La tossicità di una certa mascolinità, ce l’ha persino il cambiamento climatico, e poi la paura del diverso… insomma aveva tantissimi elementi che col tempo sono risultati super attuali e contemporanei. E il grosso lavoro fatto insieme a Francesco e a Cattleya, che ha seguito la parte editoriale, era proprio cercare di renderlo realmente un racconto contemporaneo, anche se il romanzo è ambientato negli anni ’70.

Francesco come hai incontrato Alessandro?
Francesco Carrozzini: Ci conosciamo da molto, prima di questo film l’ho anche fotografato sette anni fa, quando aveva appena fatto Non essere cattivo. Insomma ci siamo sempre tenuti in contatto. Non avevamo una reale amicizia ma ci conoscevamo e tre anni fa, a Venezia, ci siamo incontrati e abbiamo pranzato insieme, l’ho guardato negli occhi e gli ho chiesto se volesse leggere la sceneggiatura. Lui la settimana dopo mi ha chiesto quando iniziavo il film.
I personaggi, che vivono percorsi speculari, hanno entrambi a che fare con padri abusivi e con questa mascolinità tossica. Quanto avete lavorato insieme proprio per costruire questa identità comune?
Jessica Brown Findlay: È stato interessante. Non so se sia stato volontario. Abbiamo sviluppato i nostri personaggi separatamente. Molto passava attraverso la fisicità, attraverso le paure umane che però fanno parte della nostra natura animale. Ci siamo uniti attraverso Caleb, il figlio.
Alessandro Borghi: Jessica è una donna estremamente intelligente, è un’attrice con un grandissimo talento quindi è stato molto semplice cercare di trovare una linea di comunicazione. Non ne abbiamo neanche mai parlato però quando ci siamo incontrati per la prima volta a Londra ho avuto subito la sensazione che avremmo avuto a che fare con una persona che avrebbe portato tantissime delle sue idee e dei suoi punti di vista all’interno di questo progetto, che non è assolutamente una cosa scontata. Poi è stato fatto un lavoro, secondo me davvero di squadra, sulla sceneggiatura, sull’approccio alla sceneggiatura e sul renderla pratica. I personaggi sono due personaggi rotti dentro e trovano insieme il modo di aggiustarsi. Non lo so se è un innamoramento, quello che secondo me dobbiamo raccontare è che attraverso l’amore, che questo personaggio a un certo punto comincia a sviluppare nei confronti del figlio Caleb, si accorge di aver bisogno di questi due esseri umani per iniziare il nuovo percorso della sua vita. Una delle tematiche più importanti del film è la paternità, la sua gestione e il riconoscimento di essa. E questa è una cosa che i due personaggi condividono in maniera estremamente forte. Ogni mattina, quando si arrivava sul set, era sempre molto bello sentire i pensieri di tutti, rispetto anche alla singola battuta. E molte volte ci siamo sorpresi noi stessi di quello che poi usciva fuori.
Alessandro ha appena citato il tema della paternità, che è molto importante ma si tratta di padri anche da uccidere, e questo è uno dei grandi archetipi del racconto. Ci puoi raccontare un po’ questo aspetto?
Francesco Carrozzini: È una cosa molto personale. Io, mio padre l’avevo già perso. Prima di iniziare questo film abbiamo avuto un rapporto molto conflittuale e diciamo che è stato un padre per certi versi, non fisicamente, violento. Sicuramente questa mascolinità un po’ tossica legata all’imposizione è una cosa che mi ha sempre fatto soffrire e riflettere. In realtà credo che abbia a che fare con la scelta questo film. Non è tanto solo l’effetto di quello che può essere la paternità, ma quello che queste domande sollevano è: che cosa vogliamo scegliere? Chi vogliamo essere? Qual è la famiglia che ci scegliamo? Questi sono anche un po’ i temi. Jacob, il padre di Lea, parla di paura che è un tema molto importante secondo me in questo momento storico e quindi ho cercato di legare il tutto.

Vorrei sapere un po’ di questa sinergia tra Sky, Cattleya e Groenlandia e sapere anche da voi come questo film si inserisce nella rispettiva linea editoriale.
Nils Hartmann: Questo è il primo film che produce Sky Studios e credo che un’opera prima così ambiziosa e coraggiosa non sia facile da trovare. È proprio questo il senso di una produzione Sky Studios l’ambizione e il coraggio. Noi siamo passati da Venezia con The Young Pope di Sorrentino e ZeroZeroZero di Sollima. Adesso siamo qua con Francesco, un altro grande talento. Sky Studios è una realtà anche europea e questo film andrà in onda ovviamente anche in Germania, in Inghilterra poi verrà distribuito a livello mondiale. Quello che ci accomuna nei diversi territori, con le diverse missioni è questa ambizione di dare un porto sicuro ai talenti, che siano degli esordienti o no, nel rispetto della fragilità del processo creativo. La missione nostra è che i talenti vogliano venire da noi a cercare un dialogo creativo e che si sentano sicuri a lavorare con noi. Abbiamo pensato che il film meritasse di uscire in sala e che quindi non fosse riservato solo ai nostri abbonati.
Riccardo Tozzi: Questo è un progetto che ha molti tratti dell’identikit della linea principale di Cattleya, che lavora sul genere non soltanto come codice, ma per la capacità che ha di potenziare la narrazione di emozioni universali. L’abbiamo fatto con Gomorra. Sì, abbiamo preso lo scenario della criminalità organizzata però in realtà raccontiamo una famiglia disfunzionale. E anche in questo caso il libro di Nesbo è un libro di genere. Aveva sullo sfondo questo tema della ricerca della libertà, dell’oppressione della figura paterna quindi si prestava moltissimo a questo. Alessandro è un attore che contribuisce alla costruzione del film.
Matteo Rovere: Per noi, e penso anche per le persone di Cattleya, di Groenlandia oltre che di Sky, è stata un’esperienza abbastanza estrema da un punto di vista produttivo, organizzativo, perché abbiamo girato ai fiordi che sono complessi anche da raggiungere, quindi immaginatevi tutta la logistica, portare lì tutto quello che è necessario. Però penso che per Francesco, per Alessandro e per tutti i nostri attori sia stata anche un’esperienza intensa perché quando si fanno questi tipi di film ci si chiude un po’ in quel mondo.
Cos’è che ti spinge a scegliere questi progetti? Ti senti diverso quando reciti in lingua inglese?
Alessandro Borghi: Prima di poter decidere se accettare o meno una proposta dall’estero bisogna riceverla e quindi quando ci viene data la possibilità di avere a che fare con un altro contesto è sempre una grande occasione per mettersi alla prova. Sia perché si ha a che fare con un’altra lingua e poi perché ovviamente si tende a raccontare delle storie che hanno dei criteri diversi. Inoltre si esce dalle proprie zone di comfort e ci si confronta con un altro tipo di attori, con un altro approccio, con un’altra cura rispetto a molte cose perché ti vai a scontrare con un mercato molto più ampio, molto più rischioso. La mia fascinazione nei confronti del mercato estero è sempre stata altissima perché io da spettatore sono uno che da sempre vede milioni di film anche non italiani. Quando noi parliamo in un’altra lingua si modificano degli aspetti del nostro carattere. È una cosa reale, cioè ci sono delle persone introverse che diventano estroverse o viceversa. Succedono delle cose. E questo succede ovviamente anche nella recitazione, cioè all’applicazione della lingua che va a favore del personaggio, e quindi già richiede un cambiamento, si aggiunge anche un cambiamento rispetto all’approccio che tu hai nei confronti del lavoro. Quando recito in altre lingue, parlo dell’inglese ma parlo anche del protolatino di Matteo Rovere, ci si libera moltissimo dal giudizio della parola. Mi infastidisce quando mi richiedono di parlare in un italiano pulito, perché non esiste e quindi quando invece reciti in un’altra lingua, questo problema non c’è e diventa una piccola dose di giudizio che si elimina.

Qual è il tuo cinema d’ispirazione? Cronenberg fa parte della tua formazione? E poi, visto che è un film anche di luci e ombre, tu sei un fotografo. Volevo sapere che cosa ti affascina sia nella luce sia nell’ombra.
Francesco Carrozzini: È sicuramente un regista che io ammiro tantissimo. Io mi sono veramente formato con tanto cinema. Ieri ho detto che la fotografia per me era un mezzo per arrivare a fare quello che sto facendo adesso. C’è tanto Polanski nella mia formazione e tanto Antonioni. L’idea di questo film era fare un noir con una luce del sole costante. Il noir che, per definizione, parte un po’ con l’espressionismo e quindi con le luci molto contrastate, con le poche fonti di luce perché non c’erano i soldi per illuminare il film più di così è stato il concetto che ci ha guidati. Questo è un film che è stato fatto veramente con poca luce, usando quello che avevamo e illuminando sempre da fuori.
C’è una responsabilità o una soddisfazione speciale nel partecipare a un’opera prima?
Jessica Brown Findlay: Si. Così spesso le persone ti chiedono con chi vuoi lavorare e quali siano i tuoi programmi per il futuro. Hai delle idee e delle speranze dei sogni e a volte è possibile che si realizzino ma non servono prove della capacità e del successo di qualcuno per sapere che vuoi veramente lavorare con lui e partecipare a un progetto.

Ci puoi dire qualcosa in più della tua collaborazione con Andrea Fari, il compositore della musica del film? Perché il titolo è cambiato da Midnight Sun a The Hanging Sun?
Francesco Carrozzini: Per quanto riguarda il titolo, c’è un altro film che ha lo stesso titolo del libro, Midnight Sun e volevamo differenziarci. Ne avevamo parlato con Nesbo e gli avevamo chiesto se potevamo, sulla base del libro, cambiare il titolo e metterne uno originale. È stata una proposta di Stefano Bises, lo sceneggiatore che ha interpretato l’idea di combinazione di luce ossessiva, costante con questo termine “hanging”. Ne abbiamo parlato con Nesbo e ha accettato di buon grado. La collaborazione con Andrea Fari è stata molto interessante, è un grande talento. Mentre giravamo ha composto 18 delle 20 tracce che trovate nel film. Non ci sono mai stati ripensamenti sulla colonna sonora. Una volta che l’ha proposta è stata accettata ed è una cosa davvero rara. La musica è commento che si aggiunge alla storia, non una ripetizione. È un modo per dire qualcosa che non dicevano i personaggi del film. Non ci sono così tanti dialoghi rispetto ad altri film. Ci sono personaggi che parlano di più, altri che parlano di meno. Ma la colonna sonora, la musica, è un’altra forma di linguaggio, un’altra forma di comunicazione e rifletteva perfettamente quello che la storia voleva raccontare.