La terza stagione di True Detective parte in grande stile e torna a scandagliare le profondità dell’animo umano, ponendoci di fronte ai grandi quesiti dell’esistenza attraverso lo “spettacolo” del Male e della Morte. Ritorno alle origini? Nettamente. Ora però andiamo avanti. Qui uno sguardo complessivo ai primi due episodi! [SPOILER]
Un grande ritorno
True Detective è tornata. In tutti i sensi. La terza stagione della serie antologica creata da Nic Pizzolatto ha debuttato su Sky Atlantic lunedì 14 gennaio ed è stata una vera e propria dichiarazione d’intenti. C’è chi parla di un ritorno alle “origini” che comunque riesce a metà e chi invece di una scommessa già vinta (almeno per quel che si è potuto vedere finora). Dopo due soli episodi i giudizi su una riuscita integrale o meno non possono essere che sommari: insomma, c’è da restar lucidi ed oggettivi. E tuttavia, qualcosa può esser già detto con estrema certezza. Indubbiamente un ritorno alle origini c’è, è vero, ed è un bene: dopo una seconda stagione confusa e inconcludente, i nuovi episodi ci ritrasportano nelle atmosfere e ambientazioni che hanno reso iconica la prima stagione con il detective Rust Cohle, con un riavvicinamento palese al format e allo stile che conquistarono nel 2014 i cuori del pubblico internazionale.
Andiamo avanti
Detto ciò, ora dovremmo smetterla. Sì, avete letto bene. Dovremmo smettere di approcciarci a questa serie restando nel solco di un perenne paragone con la prima indimenticabile – e probabilmente insuperabile – stagione, altrimenti non ne usciamo più. Chiaro, un confronto è d’obbligo, anche perché il riavvicinamento al “passato” di True Detective è stata una scelta consapevole, come ha dichiarato lo stesso Pizzolatto. Tuttavia, se continuiamo a giudicare il nuovo corso della serie esclusivamente sulla base delle sue origini, rischiamo di perderci tutta la bellezza e la novità che questa stagione porta con sé, di restare distratti, alla continua ricerca di collegamenti e raffronti con la prima, persino di non apprezzare a dovere la presenza di un grande attore come Mahershala Ali, Premio Oscar per Moonlight, che in soli due episodi ci ha già regalato un’interpretazione degna di nota. La storia dei detective “Rust” e “Marty” resterà sempre lì, gioiello perfettamente scolpito in ogni sua parte, prodotto concepito e realizzato magistralmente come pochi se ne incontrano sul piccolo schermo. E così, con la giusta serenità e il necessario distacco, andiamo avanti e cerchiamo di accompagnare gli agenti Wayne Hays e Roland West in questa nuova indagine.
Il caso, i personaggi
Il 7 novembre 1980, «lo stesso giorno della morte di Steve McQueen», due ragazzini, Will e Julie Purcell, spariscono misteriosamente in una cittadina dell’Arkansas, nel cuore dell’Altopiano d’Ozark. A denunciarne la scomparsa il padre, Tom (Scoot McNairy), un uomo drammaticamente segnato da un rapporto con la moglie Lucy (Mamie Gummer) ormai giunto al capolinea. Ad indagare sul presunto rapimento sono chiamati Wayne Hays (Mahershala Ali) e Roland West (Stephen Dorff), detective della Polizia di Stato. L’uno distaccato e di poche parole, con un passato traumatico in Vietnam; l’altro un uomo d’azione, più sanguigno. Fin da subito gli equilibri nella “coppia” investigativa sono chiari e lasciano presagire futuri sviluppi. I due comunicano il necessario, entrambi incarnano un modello di maschilità votata alla risolutezza, alla gestione intima della propria sfera emotiva, senza troppi squarci di penetrabilità. Vite dedite al proprio lavoro (non senza ombre), tanto che Hays dichiara più volte di non essere affatto interessato al matrimonio.
Amelia
All’interno di questo equilibrio a due tutto maschile, si inserisce presto un nuovo personaggio, Amelia Reardon (Carmen Ejogo), un’insegnante e aspirante scrittrice che fin da subito rivestirà un ruolo fondamentale per l’indagine e lo sviluppo narrativo. Carismatica, intelligente ed empatica, Amelia è tutto l’opposto di Hays: un passato da ribelle pacifista lei, lui ex soldato; lei vive tra libri e poesie ed è vegetariana, lui legge fumetti e adora la carne. Nonostante ciò, tra i due è subito attrazione, un’alchimia che sembra fin dall’inizio innanzitutto “mentale” e che li condurrà, come sapremo nel corso della puntata, a diventare marito e moglie.
Tell me a story
Ed è proprio tramite la voce di Amelia che viene introdotto uno dei temi portanti di questa terza stagione: il Tempo. Sul solco della forte vocazione “letteraria” della serie, il personaggio dell’affascinante insegnante viene introdotto mentre recita alla sua classe una poesia di Robert Warren Penn. La voce morbida di Amelia scivola sulle parole evocative del poeta statunitense, mentre Hays la osserva quasi in trance:
[…] Tell me a story.
In this century, and moment, of mania,
Tell me a story.
Make it a story of great distances, and starlight.
The name of the story will be Time,
But you must not pronounce its name.
Tell me a story of deep delight.
Più che lanciarci in sovra-analisi di questi versi alla ricerca di eventuali indizi nascosti, è da notare qui l’impostazione generale del tono narrativo, che subito apre una molteplicità di piani di senso e ci dona, ancora, la certezza di un’esperienza a tutto tondo. Ed è questa la grandezza di True Detective, ciò che la distingue da un semplice poliziesco: essere un addentrarsi nelle profondità dell’animo umano, uno scavo chirurgico nell’esperienza stessa dell’umano, scandagliandone “altezze”, limiti, sfasature. Il tema del Tempo è fondativo della nostra esperienza, è il collante dell’Identità, il reticolo traballante e dai contorni incerti nel quale ci muoviamo, nostro discapito, con pochi punti fissi, meno di quelli che crediamo. Chi siamo, senza memoria? Se il tempo scivolasse via e ci trovassimo improvvisamente in un Eterno presente senza prima né dopo, riusciremmo nonostante tutto ad orientarci e dare un senso alle nostre vite ed esperienze, persino ai nostri amori? Sono tutte riflessioni che questi versi, per bocca di Amelia, stimolano lo spettatore attento e, diciamolo, con un tocco di amore in più per la filosofia e la poesia.
Il Tempo
La tematica del tempo appare ancor più significativa se pensiamo alla costruzione narrativa di questa terza stagione, che scorre su tre piani cronologici diversi: 1980, il tempo dell’indagine; 1990, la deposizione di Hays dopo la riapertura del caso; 2015, Hays ormai anziano viene intervistato per la televisione, ma scopriamo che la sua memoria ormai è compromessa da un male insorto proprio negli anni ’90. Pare legittimo allora chiedersi fino a che punto il racconto del detective sia attendibile, considerando che quanto osserviamo potrebbe costituire un ricordo parziale o inesatto, o addirittura che intere porzioni della vicenda potrebbero essere state rimosse. Nic Pizzolatto ha però dichiarato in un’intervista che quel che ci viene mostrato è esattamente ciò che dobbiamo sapere, escludendo espedienti come allucinazioni, sogni, ricostruzioni arbitrarie.
Identità e memoria
Accanto a quella vera e propria, allora, il tema della memoria introduce un’altra indagine, forse addirittura più importante: quella che Hays – e noi con lui – compie su se stesso, nel tentativo di rimettere insieme i pezzi della sua esistenza. Cosa ne è stato della moglie e della figlia? Come il caso Purcell ha influenzato le loro vite? La memoria spesso si attiva grazie a sprazzi di consapevolezza, stimoli sensoriali o immagini sparse: il ricordo della luna piena, che torna più volte nel racconto, elemento profondamente evocativo; ma anche il libro scritto dalla moglie, oggetto “documentario” che per eccellenza custodisce quello che fu, ma anche oggetto puramente “affettivo”, talismano che riattiva il ricordo della moglie defunta. Qui emerge tutta la bravura di Ali, magnifico nell’interpretare il detective Hays nei tre diversi momenti della sua vita. E non è solo una questione di “trucco”: attraverso gli occhi, le espressioni del viso, certi movimenti abbiamo davvero la percezione di assistere ad un continuo oscillare avanti e indietro nell’esistenza di un uomo. Perfetti i primi piani sul viso, che ci restituiscono tutta l’espressività dell’attore. Negli occhi di Hays ormai anziano leggiamo davvero lo spaesamento di un uomo che sta perdendo se stesso, quella fragilità e quell’ammorbidirsi che sopraggiungono con l’età, così stridenti con le immagini del detective giovane e determinato.
Ambientazione
Con la terza stagione di True Detective torniamo nel profondo Sud statunitense, questa volta nel cuore dell’Arkansas. L’elemento naturale serve ad evocare atmosfere e suggestioni, da un lato, e funge da inquadramento socio-culturale dall’altro. Torniamo a muoverci in uno spazio in cui la Natura è correlata simbolicamente ad un’idea di esistenza corrotta e insensata, in cui l’orrore si insinua nelle pieghe più banali del quotidiano e impregna di sé ogni fibra dell’esistere. Le inquadrature dall’alto delle vaste distese montuose, dei campi polverosi e delle strade desolate, il tutto accompagnato dalla cupa colonna sonora, s’inseriscono fin da subito e, come accadeva nella prima stagione, stimolano sensazioni viscerali, come fossimo di fronte ad una realtà arcaica, in cui il Male primordiale si muove indisturbato. Un altro grande pregio di True Detective è proprio questo: giocare su questo doppio livello, riuscire a dare una connotazione materiale perfetta alla vicenda narrata e allo stesso tempo sfumarla nel quadro più ampio di esperienze senza tempo, appartenenti ad una dimensione altra dell’esistere, ad un mondo archetipico di ombre e luci (poche), senza per questo sfociare nel soprannaturale.
I sospettati
Torniamo all’indagine. Cosa sappiamo finora? Quali sono i sospettati principali? Abbiamo conosciuto la famiglia Purcell, moglie e marito, devastata dalla tragica sparizione dei figli. I due sembrano sinceramente addolorati, ma il conflitto tra loro potrebbe aprire ad altre verità. Vedremo. Non ne esce bene invece il cugino di Lucy, Dan O’Brien (Michael Graziadei), inquietante e sfuggente: apprendiamo infatti che ha per qualche tempo abitato in casa dei Purcell, occupando la stanza di Will, la stessa in cui i due detective trovano riviste pornografiche e, soprattutto, un foro nell’armadio del ragazzo, comunicante con la stanza della piccola Julie. Altro personaggio importante è il “Trash Man”, Brett Woodard (Michael Greyeyes), un ex veterano del Vietnam. A causa della particolare attività che svolge (e probabilmente, anche se non esplicitato, per motivi “razziali”) viene subito additato dagli abitanti come probabile sospettato. La conversazione con i due detective è un momento cupo ma quasi commovente, all’insegna di un cameratismo particolare tra uomini molto diversi, ma che si trovano a condividere il trauma della guerra e il peso di una vita da ricostruire. Teniamolo da parte. Infine, i tre ragazzi nel Maggiolino viola: Freddie Burns, Ryan Peters, Jason Lampanella.
Satanic Panic
Il substrato culturale della terza stagione pare riferirsi, secondo vari indizi sparsi per le due puntate, a quella particolare psicosi collettiva che si diffuse negli USA tra gli anni ’80-’90 e che conosciamo con il nome di Satanic Panic. Una vera e propria isteria di massa, una teoria del complotto in cui rientravano culti satanisti, politici, istituzioni, rock band e persino giocatori di Dungeons & Dragons. Ed è proprio un manuale del celebre gioco ad essere inquadrato sul comodino di Will, durante la perlustrazione dei detective. E ancora la maglia dei Black Sabbath che indossa Ryan Peters (Brandon Flynn) e della quale il detective West chiede conto. C’è di più: i tre ragazzi “della macchina viola” sembrano fare riferimento ad un vero caso di cronaca nera che ha avuto luogo proprio in Arkansas negli anni del Satanic Panic. Parliamo de I Tre di West Memphis: tre giovani ancora adolescenti vennero accusati dell’omicidio di tre bambini e ricollegati ad un ambiente di sette sataniche e riti iniziatici nei boschi. Molte le analogie con il nostro caso: stessi luoghi (la città in cui si ambientano le vicende si chiama West Finger), stesso contesto, stessa età, persino una certa somiglianza fisica. Il ritrovamento delle curiose bambole di paglia e legno, il sospetto di un possibile coinvolgimento di una rete di pedofili, le feste scalmanate a cui partecipano i ragazzi: tutti elementi che confermano quantomeno un riferimento implicito al clima di quegli anni.
Riferimenti letterari
Possiamo adesso dedicarci, per i più intrepidi, ad analizzare nello specifico certe “spie” letterarie disseminate nei primi due episodi. Torniamo al manuale di D&D, intitolato The Forest of Leng: una veloce ricerca su Google ci suggerisce che è un libro fittizio, ma ci rivela anche qualcosa in più. Esiste infatti il Plateau di Leng, un luogo arido e gelido, appartenente all’universo di Cthulhu, creato da H. P. Lovecraft. Un luogo mitico, immerso nella nebbia, abitato da creature misteriose e mostri antichi, che tornerà in molti scrittori fantasy, tra cui Neil Geiman, Alan Moore, Stephen King e persino George R. R. Martin. È abbastanza per scatenare le teorie più varie, no? Altro riferimento letterario è sicuramente il libro scritto da Amelia, che ha un vero parallelo nel mondo reale: la scrittrice e investigatrice Mara Leveritt, autrice di vari best-seller che ripercorrono omicidi brutali avvenuti in Arkansas, tutti con analogie piuttosto stringenti col caso Purcell. Altra curiosità: il titolo del primo episodio, The Great War and Modern Memory, si riferisce al libro di Paul Fussell, un saggio di critica letteraria che indaga come l’esperienza della Guerra abbia plasmato l’estetica e le percezioni stesse degli individui nell’epoca moderna. Guerra e memoria: termini non casuali. Chiudiamo con la seconda, splendida poesia di Warrenn citata da Amelia, dal titolo: IV. Love and Knowledge, dalla raccolta Audubon: A Vision, di cui riportiamo qui i versi finali:
What is love? / Our name for it is knowledge.
L’amore come conoscenza, come memoria e ricordo consapevole. Tolti questi, che resta delle nostre esperienze e sentimenti? Una lettura integrale del componimento suggerisce però anche un’altra immagine, brutale e violenta, addolcita dalla voce sinuosa di Amelia. La poesia parla di un uomo che uccide gli uccelli che andrà poi a studiare allo scopo di disegnarli realisticamente. Nel gesto, quasi delicato e “amorevole”, di dare la morte con cura e accortezza, per non “rovinare” i piccoli corpi dei volatili, ritroviamo un po’ qualcosa della “mano” che ha dato la morte al piccolo Will, il cui cadavere viene ritrovato completamente intatto, senza segni di violenza. L’orrore della morte viene cancellato da un gesto quasi d’esteta, ma è proprio la componente chirurgica e quasi “aggraziata” a rendere il turbamento ancora più profondo.
Tirando le somme
In conclusione, possiamo affermare che le aspettative sono state pienamente appagate. La terza stagione di True Detective si apre nel migliore dei modi, riportandoci alle vecchie vibes degli inizi con una storia che subito si delinea come originale, conturbante e intrigante. La suspense è calibrata bene, la galleria di personaggi ben caratterizzata, il detective Hays ci ha già conquistati grazie alla gigante interpretazione di Ali. Resta da vedere come saranno sviluppati i personaggi del detective Roland West e di Amelia, se si ricadrà un po’ negli stereotipi della spalla “ad una dimensione” e della moglie-supporto, o se avranno anche loro una profondità psicologica in evoluzione. Per il resto, True Detective torna ad affrontare le ombre – e lo fa per davvero, senza cliché o rigidità – corrodendo i margini delle nostre certezze e ponendoci di fronte ai grandi quesiti dell’esistenza attraverso lo “spettacolo” del Male e della Morte.
True Detective è una serie HBO ideata e scritta da Nic Pizzolatto, che debutta con la terza stagione anche dietro la macchina da presa, alternandosi a Daniel Sackheim. I primi due episodi sono diretti invece da Jeremy Saulnier. Tra i produttori Scott Stephens (WestWorld), Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club, Mud, The Wolf of Wall Street) e Woody Harrelson (Tre manifesti a Ebbing, Missouri, la saga di Hunger Games). True Detective 3 è in onda ogni lunedì su Sky Atlantic alle 21.15 e disponibile su Sky On Demand.