Con il terzo episodio della seconda stagione, Il bagaglio (Baggage), The Handmaid’s Tale affronta il tema del rapporto madre-figlia e, quindi, della maternità. E lo fa senza semplificazioni, ma con il solito sguardo complesso e problematico sull’universo femminile, intessuto di rapporti tra donne contraddittori e sfaccettati.
La fuga di June e la nuova vita in Canada
Dopo i primi due episodi June e Non Donne, la seconda stagione di The Handmaid’s Tale continua la sua narrazione ampliando i confini spaziali e mostrandoci altre realtà al di fuori di Gilead. Abbiamo visto per la prima volte le Colonie, terre contaminate dove le donne “inutili” per il sistema – veri e propri rifiuti sociali – sono costrette ai lavori forzati. Qui abbiamo ritrovato Emily (Alexis Bledel), personaggio approfondito nella 2×02, e Janine (Madeline Brewer). Nel frattempo, June (Elisabeth Moss) è riuscita a scappare grazie all’aiuto di Nick (Max Minghella) ed è rimasta nascosta nella sede del The Boston Globe, quotidiano della città, di cui conosciamo le tragiche sorti. Con il terzo episodio Il bagaglio (Baggage), continuiamo a seguire la disperata fuga di June, che si trova dilaniata da sentimenti contrapposti: la volontà salvare se stessa e il figlio che aspetta raggiungendo il Canada e il senso di colpa di abbandonare, in fondo, la figlia Hannah nelle mani del regime. Da qui si sviluppa il tema principale della puntata, quello della maternità e del rapporto madre-figlia, grazie all’introduzione di Holly (Cherry Jones), madre della protagonista. Torniamo poi in Canada e a Little America, come viene ribattezzato il quartiere dove continuano ad arrivare rifugiati politici scappati da Gilead, alle prese con il tentativo di ricominciare una nuova vita: qui ritroviamo Luke (O. T. Fagbenle) e Moira (Samira Wiley).

Un futuro ignoto
June è ormai ufficialmente una fuggitiva politica. Completamente in balìa degli eventi, deve affidarsi ciecamente a persone che nemmeno conosce. Acquisite più consapevolezza e razionalità rispetto alla situazione in cui si trova, la protagonista ha ora come obiettivo quello di raggiungere il Canada, unica via di scampo. Con lei viviamo tutto il senso di impotenza e la frustrazione di non poter essere padrona, di nuovo, del proprio destino. Qualcosa nel piano va storto e June, che rischia di essere abbandonata a se stessa, convince chi avrebbe dovuto scortarla verso la fuga a tenerla nascosta in casa. Entriamo così in contatto con una nuova realtà, ancora un altro spaccato della società distopica creata da Margaret Atwood nel suo romanzo e trasposto fedelmente nella serie tv. La coppia che accoglie June abita in una casa normale, in un quartiere che sembra del tutto avulso dalle tragiche dinamiche che avvengono a Gilead, dove violenza e sopraffazione sono all’ordine del giorno e la crudeltà viene sbattuta in faccia in tutta la sua assolutezza. Eppure anche qui vige quell’atmosfera inquietante di costante controllo e autoregolamentazione, come se tutti vivessero sotto il Grande Occhio, con la perenne paura di essere scoperti in qualche piccola o grande infedeltà e perdere quel privilegio – perché in un regime del genere lo diventa – di poter condurre la propria vita in semi-cattività fisica e psicologica, ma senza conseguenze drammatiche come quelle che hanno dovuto affrontare le Ancelle, le non-donne o la schiera di traditori del genere.

Due esperienze inconciliabili
June entra in contatto così con i cosiddetti “Econopeople“, persone che continuano a condurre la loro esistenza quasi normalmente, sotto l’egida del nuovo regime, e che in fondo formano la middle-class della società atwoodiana: né governatori né servi. Sappiamo ancora poco di questa categoria sociale, ma possiamo immaginare che questi cittadini siano stati lasciati in pace a motivo della propria fede e “ortodossia”, anche se presto scopriamo che la famiglia che nasconde June, in verità, è musulmana ed è dunque costretta a vivere la propria religiosità clandestinamente. The Handmaid’s Tale torna poi ad indagare poi i rapporti tra donne in questo mondo distopico, la loro complessità e problematicità, e ancora una volta ciò a cui si assiste non sembra poi così lontano dalla nostra, di realtà. La moglie dell’uomo che nasconde June guarda a lei con orrore, una volta compreso di avere davanti un’Ancella. Ecco che arriva il giudizio, lo stigma, l’incomprensione lancinante e mortificante da una donna che dovrebbe empatizzare, in nome di una presunta sorellanza – in fondo siamo in un regime che ha disumanizzato le donne, tutte – e che invece ha solo sguardi di disgusto e parole superbe per un’altra donna che dovrebbe essere ai suoi occhi una vittima e, invece, diventa responsabile di ciò che le è accaduto. Vi ricorda qualcosa?
Little America, resistenza e fantasmi
Ci spostiamo per un attimo in Canada, a Little America, diventato ormai luogo di resistenza e accoglienza dei tanti rifugiati che arrivano dagli ex Stati Uniti. Qui ritroviamo Luke, marito di June, e Moira, la migliore amica di questa. La vita qui procede apparentemente serena, ma tanti segnali arrivano a infrangere questa iniziale percezione. L’esistenza di questi personaggi – e con loro dei tanti immigrati – è marcata da un senso angosciante di attesa di qualcosa. Di un cambiamento, di un ritorno alla normalità in fondo impossibile…di una guerra, persino. Ci si sforza di tornare al banale vivere quotidiano, ma è chiaro che non può essere così. Questo è soprattutto vero per Moira, che di quel regime violento e patriarcale ha avuto esperienza diretta. Ne è stata vittima tre volte: come “traditrice del genere” (come vengono chiamate le persone non etero), come Ancella e infine come prostituta a Jezebel. Moira non è salva dai suoi ricordi e dai traumi che ancora la tormentano. Persino un’esperienza sessuale libera ed autonoma, come quella che consuma nel bagno di un locale con una sconosciuta, diventa un qualcosa di estraneo e fonte di malessere. È per questo che Moira dice alla partner occasionale di chiamarsi Ruby: il nome che usava nel bordello di Jezebel dove era stata prigioniera. Gli spaccati ambientati a Little America ci trasportano nella dimensione esistenziale che si trovano a vivere i rifugiati, tra spirito di sopravvivenza, traumi e solitudine. Anche questo parla chiaro e forte al nostro presente.

La madre di June, un rapporto complesso
Con la solita costruzione a flashback, la 2×03 di The Handmaid’s Tale ci trasporta ancora nel passato di June mostrandocene un altro aspetto. Per la prima volta vediamo la protagonista bambina e riprendiamo i fili della sua esistenza dalla sua infanzia. Conosciamo allora Holly, l’energica e combattiva madre di June, convinta attivista femminista. Con uno sguardo come sempre complesso e sfaccettato, il rapporto tra le due viene indagato con brevi ed esaustivi quadri di vita quotidiana, piccoli episodi che mettono in luce un legame contraddittorio e problematico. Anche qui si mostra la grandezza di questa serie, capace di andare a scandagliare l’universo femminile nelle sue molteplici rappresentazioni e nei rapporti tra donne, che hanno ancora poca visibilità sul piccolo come nel grande schermo e spesso ricadono nell’unica dicotomia amiche-nemiche. Ebbene, il legame madre-figlia è il grande tema di questa puntata, come un filo rosso che lega le storie di queste donne ponendole l’una di fronte all’altra, in un gioco di specchi e identificazioni reciproche, uno scambio di ruoli e posizioni. C’è un percorso che ognuna di loro compie individualmente e con l’altra, per ritrovarsi poi distanti a condividere silenziosamente un destino comune, scelto per loro in quanto donne. Nel condividere questo comune destino il cerchio si chiude e il rapporto – almeno idealmente – viene risanato nelle sue crepe e incomprensioni.

Madri, ma prima persone
Qual è il grande ostacolo del rapporto tra June e la madre, fonte di incomprensioni e vuoti affettivi? Holly non incarna il modello di madre votata unicamente al sacrificio di sé e con la propria fermezza e il proprio radicalismo spesso mette in difficoltà June, facendola sentire – inconsapevolmente – inadeguata e non appoggiata nelle sue scelte. Ciò che separa le due donne è proprio la dimensione in cui vivono le loro vite: l’una una dimensione di lotta e indipendenza assoluta, l’altra educata sui principi femministi ma in fondo con una vita molto più tradizionale e sganciata dall’attivismo vero e proprio. Holly è incapace di sacrificare se stessa e le proprie motivazioni per la figlia, per essere madre e basta; June soffre per questo e non lo comprende, almeno non in quel momento. Spesso avrebbe forse bisogno di sua madre e non di un’attivista. La frattura si rimargina appunto quando la situazione precipita e le due donne si trovano entrambe a vivere sulla propria pelle le conseguenze estreme di quel sistema che l’una vedeva benissimo, l’altra un po’ meno. La visione “politica” della vita, che Holly aveva messo al centro della sua esistenza, aveva posto una distanza invalicabile tra le due; ora è nella comprensione da parte di June che quando sei donna tutto “il personale è politico“ che si rimargina quell’antica ferita. Tutto questo è affrontato senza giudizio né per l’una né per l’altra: ad emergere è il vissuto autentico, problematico e sfaccettato delle due donne, poste l’una davanti all’altra.

Quel bagaglio inconfessabile
Allora quale sarebbe questo “bagaglio” di cui June deve liberarsi una volta per tutte? Alla luce di quanto abbiamo detto, esso non è altro che il proprio travagliato senso di colpa di madre nei confronti della figlia che June sente, in qualche modo, di abbandonare. Ecco a cosa è servito allora mettere in luce il complesso rapporto con la madre Holly. Ora però June ha capito, ha compreso e perdonato quell’egoismo incomprensibile che nel presente è stata invece costretta non solo a capire, ma a far proprio. Osserviamo allora il filo rosso scorrere di madre in figlia, da Holly a June e da June ad Hannah, assistiamo al passaggio di testimone di una lotta che si trasferisce ora sulla protagonista, consapevole che un giorno questa stessa lotta passerà a sua volta nelle mani della figlia e speranzosa che anche lei, prima o poi, possa capire e perdonare quel “sano” egoismo, inevitabile per non soccombere e abbassare la guardia in un mondo che vuole ancora la donna nell’unico ruolo di madre e santa votata al sacrificio di sé. «No mother is ever, completely, a child’s idea of what a mother should be, and I suppose it works the other way around as well. […] I wish my mother were here, so I could tell her I finally know this. So I could tell her I forgive her. And then ask Hannah to forgive me».

The Handmaid’s Tale è una serie ideata da Bruce Miller e tratta dall’omonimo romanzo della scrittrice Margaret Atwood. Distribuita da Hulu, in Italia la serie è disponibile su Timvision, con due episodi ogni giovedì. Con Elisabeth Moss, Alexis Bledel, Ann Dowd, Joseph Fiennes, Yvonne Strahovski, Madeline Brewer, O. T. Fagbenle, Max Minghella, Samira Wiley. Continuate a seguirci per le recensioni di tutta la seconda stagione di The Handmaid’s Tale!