La Turandot di Giacomo Puccini approda al Teatro Argentina dal 5 al 10 febbraio. Alla regia Marco Plini e in scena la Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino, un magico incontro tra due culture per una favola dark senza tempo.
Favola per antonomasia dell’esotismo orientale, ricca di colpi di scena, agnizioni e promesse ferali, Turandot è divenuta nel tempo, da Gozzi a Puccini, l’emblema del nostro immaginario sulla grande Cina. Sarà proprio la storia della principessa bella e temibile ad andare in scena al Teatro Argentina dal 5 al 10 febbraio, per la regia di Marco Plini e con gli attori della Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino: Xu Mengke (Calaf), Zhang Jiachun (Turandot), Liu Dake (Timur), Wu Tong (Liu), Ma Lei (Wang Ping), Wang Chao (Ping), Nan Zikang (Pong) e Wei Pengyu (Pang). Lo spettacolo è un sottile gioco di specchi tra due mondi, lontani in apparenza, ma reciprocamente attratti e affascinati l’uno dall’altro, perché entrambi eredi di civiltà antiche, sofisticate e misteriose a un tempo. Da un lato, dunque, la raffinata arte attoriale dell’Opera di Pechino, sublime mescolanza di recitazione, danza e canto, tesa a una continua perfezione del gesto artistico; dall’altra, invece, lo sguardo prospettico d’invenzione tutta italiana, il gusto visionario e la lunga sapienza d’ordire scene illusionistiche, abilità divenuta patrimonio del teatro europeo. «Il fascino dell’Opera di Pechino è il fascino di una bellissima favola per bambini animata da imperatori, principi e principesse tutti molto rispettosi dei loro ruoli», Marco Plini.
«È così che l’ho approcciata, nel rispetto di un teatro secolare che porta sul palcoscenico un’antropologia viva, con la soggezione del novizio invitato a partecipare a un rito antico e misterioso. Turandot nasce da questo rispetto, da questa curiosità e da questo mistero. Ho immaginato di portare il pubblico europeo a entrare in un sogno bellissimo e colorato che non possiamo capire fino in fondo, ma le cui immagini ci attraggono e risucchiano in un vortice di colori brillanti e suoni rumorosissimi, che man mano prendono senso, un senso profondo, atavico, che ci colpisce nel profondo ma a cui non riusciamo a dare un nome. Come i principi che si recano a palazzo per cercare di risolvere gli enigmi nella speranza di poter sposare la principessa di incomparabile bellezza, restiamo stregati da un’immagine che incanta. Ma Turandot è una favola nera, fatta di sangue, teste tagliate, vendette e paure. Il sogno, atto dopo atto, si trasfigura, diventa sempre più violento, più spaventoso: la fiaba diventa allucinazione. Un sogno così non può avere un lieto fine, la morte di Liù non può essere dimenticata nel nome dell’amore per quanto folle e principesco esso sia. […] Ho immaginato un giardino della classicità che potrebbe ricordare i quadri di Delvaux, in cui sorge un palazzo fatto solo di colonne di marmo. In questo giardino, anziché gli uomini piccolo-borghesi di Delvaux, arrivano i personaggi mitici della tradizione cinese, un po’ spiazzati, certo, ma ugualmente compresi nel loro ruolo di imperatori e principesse, con i loro movimenti codificati e immutabili nel tempo per rappresentare il desiderio di vendetta e la follia omicida di Turandot. In questo mondo entrerà un Calaf che, come Pinocchio nel Paese dei Balocchi, arriva in un luogo di favola e ne viene ammaliato come in un incantesimo che lo fa sentire un eroe fino alla morte della fedele Liù. Il sacrificio della serva che sceglie il suicidio piuttosto che rivelare il nome a Turandot, cambierà irrevocabilmente l’atmosfera del sogno. Turandot è una meravigliosa figura, il nume tutelare di questo mondo colorato e inquietante che sembra essere la sua stessa emanazione, irraggiungibile nella sua bellezza, è crudele e fragile come una bambina, estrema nelle sue posizioni come i personaggi dei sogni e, come tale, è destinata a restare per sempre imprigionata nel mondo delle fiabe».