La nostra intervista a Svevo Susa, un giovane cantautore che ha appena debuttato con il singolo Luoghi Sacri: follemente innamorato della poesia ma attirato anche delle sonorità cupe ed evocative, l’artista ci ha parlato del progetto musicale in arrivo e del suo modo di fare musica
Luoghi sacri (che ha debuttato il 23 giugno grazie a Rivoluzione Dischi/Pirames International) introduce un concept Ep, ci puoi dare qualche anticipazione su questo progetto?
Saranno poche canzoni, collegate da un filo conduttore unico: l’idea di devozione sentimentale all’inizio di un rapporto. Luoghi Sacri (disponibile qui su Spotify) descrive perfettamente il carattere dell’EP. Volevo scrivere delle preghiere profane e credo di esserci riuscito.
Nel tuo brano si parla di un incontro: di solito che tipo di sinergie riesci a creare con le persone che ti circondano?
Purtroppo dipende in gran parte dallo stato d’animo in cui mi trovo. Ci sono giorni in cui persino interagire con un Cocker Spaniel diventa una forzatura. Ma in una situazione come in quella descritta in Luoghi Sacri, divento uno strano ibrido tra Garibaldi e Sailor Moon e generalmente entro in un delirio onirico importante, dalle fattezze del paradiso degli Elefanti Rosa di Dumbo. Comunque, per rispondere alla domanda, sono da prendere a piccole dosi: come la Sertralina.
Immagina di aver appena ascoltato Luoghi sacri per la prima volta: scegli quattro parole per descriverlo.
Cupo, malinconico, arioso, celebrativo.
Quanto c’è dei tuoi viaggi all’estero nei brani che scrivi e canti?
Di Londra poco, credo. Parigi è una canzone, non è umanamente possibile non esserne plagiato. Così come Roma.
Viaggiando, cosa ti rimane più attaccato?
Le sensazioni, a meno che non siano terribilmente belle o drasticamente brutte, le dimentico. Così come dimentico, tranne alcuni casi eccezionali, anche i momenti ed i profumi. Lo spazio fisico invece, i luoghi, sono una benedizione e al tempo stesso una condanna: non li dimentico mai. Vengono contaminati dalle persone e dalle esperienze in modo irreversibile. Forse è per quello che tante delle cose che scrivo sembrano diapositive.
Hai vissuto in Inghilterra e in Francia: quale personaggio storico-artistico avresti voluto conoscere dell’uno e dell’altro Paese?
David Bowie e Yolande de Polastron. Magari insieme! Madre mia, che serata spaziale!
Definisci il tuo genere musicale come una “carmina” per il tuo amore per la poesia: come sei arrivato a questo termine e da cosa deriva questa tua passione?
Non c’è nulla di così immediato e animalesco nel mondo dell’arte come la poesia. Una canzone richiede una costruzione e qualche ascolto, un lungometraggio necessita del tempo per esser visto e assimilato, e persino la pittura, nella maggior parte dei casi, richiede la pazienza della composizione e la capacità visiva di comprenderla. Per scrivere dei versi basta un foglio ed una penna: possono essere letteralmente due righe. La definizione Carmina nasce dall’esigenza di definire ciò che scrivo: la ripetizione, il mantra, gli inni, l’idea di una ninna nanna popolare e di una pastorale urbana malinconica. Vorrei che con il termine Carmina si pensasse a questo.
Parole o musica: cosa riesce ad esprimere meglio cos’hai dentro e cosa ti passa per la testa?
Sono ossessionato dalle parole, dalla loro forma e dalla possibilità di costruire con esse qualcosa di così immediato e vicino al cuore nonostante siano così distanti dalla fisicità. Sono il mio problema più grande, le parole: la melodia è istintiva, evocativa, brutale, naturale. Il fraseggio non lo è. Credo che entrambe, musica e parola, siano indispensabili per comunicare ciò che voglio.