La nostra recensione di Sundown, sfuggente di dramma di Michel Franco, con Tim Roth indolente nelle vesti di un apatico personaggio che fugge dalla famiglia e si trasferisce in Messico, in concorso a Venezia 78
Sfuggente come la luce cangiante di un tramonto in un cielo infestato da nuvole oscure. Anemico. Quasi respingente per la sua ostentata indolenza. Sundown segna il ritorno del regista messicano Michel Franco alla Mostra del Cinema di Venezia, dove nel 2020 ha ottenuto il Gran Premio della Giuria per il divisivo e crudele Nuevo Orden. La sua nuova fatica cinematografica manca della dirompenza del film precedente e si crogiola nell’accidia del suo protagonista, interpretato da un Tim Roth glaciale, senza rinunciare alla spietata fotografia di un Paese, il Messico, apparentemente destinato a non godere mai di una nuova alba.
Di menzogne e fughe
In un resort di lusso in una soleggiata e paradisiaca Acapulco, Neil Bennet (Tim Roth) sta trascorrendo le vacanze con la sorella Alice (Charlotte Gainsbourg) e i figli di lei. La quiete di questa facoltosa famiglia di imprenditori londinesi viene infranta da una telefonata che annuncia la scomparsa della loro madre. Quando i protagonisti stanno per imbarcarsi sull’aereo che li riporterà a Londra, Neil si accorge di aver dimenticato il passaporto in hotel. Si tratta di una menzogna: l’uomo, infatti, non ha alcuna intenzione di lasciare il Messico. Inizia così la sua nuova vita per le strade di una Acapulco violenta e marcia.
Apatia monodica
Sundown vive dell’indolenza del suo protagonista, è la ricostruzione per immagini di un’apatia esistenziale destabilizzante. Un mosaico di istantanee che ritraggono un uomo solo, stanco, totalmente indifferente agli stimoli esterni. Un personaggio con cui pare impossibile empatizzare. Da un lato, infatti, la sceneggiatura rende Neil l’ombra di un uomo inafferrabile, il fantasma sfuggente di un essere umano le cui azioni e scelte appaiono talmente radicali da far dubitare delle sue stesse intenzioni. Non bastano sprazzi di desiderio sessuale (nei confronti di una ragazza del posto) e il colpo di scena finale per rivalutare un personaggio che, tolto tutto l’alone misterioso, resta a tratti noioso. Dall’altro lato l’interpretazione assorta e quasi inerte di Tim Roth, frutto di una precisa direzione attoriale e di un certo stile su cui l’attore si sta appoggiando da qualche ruolo a questa parte, non aiuta a rendere più interessante l’apatia di Neil.
Un sole oscuro
Brutale, ma mai caustico. Spietato, ma non abbastanza incisivo. Il ritratto del Messico, costruito sulla dialettica del contrasto, firmato da Michel Franco in Sundown appare molto più sfumato ed evanescente che nei precedenti film del regista. L’opposizione tra i resort di lusso in cui si muovo ricche famiglie di turisti e le assolate spiagge gremite di gente del posto tra cui circolano militari armati cui si affianca l’asfalto di Acapulco macchiato di sangue non viene approfondita al punto da risultare efficace. Il motivo è ancora la vacuità del protagonista che dovrebbe ergersi nell’architettura della sceneggiatura da ponte fra queste due realtà, ma che crolla ancor prima di poter essere attraversato. Sundown fotografa un mondo senza futuro, sguazza nel suo nichilismo e nella sua elegante messa in scena senza mai sforzarsi di rischiare. Come se una forza propulsiva che scalpita per scatenarsi fosse trattenuta da una barriera di gelida apatia.
Sundown. Regia di Michel Franco. Con Tim Roth, Charlotte Gainsbourg, Iazua Larios Ruiz, Henry Goodman, Samuel Bottomley, Mónica Del Carmen, Albertine Kotting McMillan. Al cinema dal 14 aprile, distribuito da Europictures.
2 stelle e mezza