La recensione di Signs of Love, drammone a tinte thriller opaco e prevedibile diretto da Clarence Fuller con i figli d’arte Hopper Penn e Zoë Bleu, vincitore del premio Corbucci 2022 alla scorsa Festa del Cinema di Roma
Arriva oggi nelle sale Signs of Love, un dramma indipendente diretto da Clarence Fuller con protagonisti i giovani figli d’arte Hopper Penn, Dylan Penn e Zoë Blue (di cui trovate qui la conferenza stampa). Le intenzioni di partenza erano ottime, le premesse per un’opera interessante sulla carta c’erano ma il risultato lascia parecchio a desiderare: un film opaco e spento, con personaggi che non sanno bene dove muoversi all’interno della storia e un finale fin troppo affrettato e posticcio.
Un nuovo futuro
Il quartiere di Port Richmond, a Philadelphia, è un sobborgo difficile dove le culture si mescolano e a regnare è la legge della strada. Frankie (Hopper Jack Penn) è un giovane che vive nella zona nord di Philadelphia e che sogna una vita migliore per sé e per suo nipote adolescente Sean (Cree Kawa). Frankie fatica a garantirgli un’esistenza normale, ma spera solo che entrambi possano sfuggire alle insidie della microcriminalità e dell’abuso di sostanze in cui è già caduto suo padre Michael (Wass Stevens). Quando Frankie incontra Jane (Zoë Bleu), una ragazza sorda di famiglia benestante, sente improvvisamente di poter credere nell’amore e di poter sperare in un nuovo futuro, ma solo a patto di riuscire a sfuggire alla difficile situazione della strada e alla cattiva influenza della sorella maggiore Patty (Dylan Penn), la madre di Sean.

Il labile confine tra pathos e patetico
Partorito da quella fucina di talenti, idee e innovazione che è il cinema indipendente americano, Signs of Love si presentava come l’ennesima scommessa di un mondo slegato dalle pressioni di major e industria hollywoodiana e quindi libero di poter sperimentare, osare, rompere le gli schemi tradizionali di narrazione e messa in scena. Ora, è evidente come Clarence Fuller non sia certamente un nuovo Harmony Korine e che l’impatto del suo cinema non sia neanche lontanamente così dirompente (probabilmente anche per scelta stilistica), però davanti ad un’opera così priva di ambizione e di coraggio come Signs of Love non si può che rimanere straniti. Il merito, o forse sarebbe più corretto parlare di demerito, sta principalmente in una scrittura piatta che non riesce mai ad elevare la materia organica e diegetica al di sopra del compitino fatto e finito, in una rappresentazione dell’arena come quella dei sobborghi di Philadelphia molto superficiale e priva di sfumature interessanti e in un tono che oscilla tra il melò e il melenso. Quando entriamo nel mondo di Frankie tutto ci appare posticcio e artificioso perché la sensazione è che, più che un film con un’identità propria, Signs of Love finisca per essere un collage di film migliori che non riesce mai ad evitare il pietismo e il patetico.

Il prezzo da pagare
Non che Signs of Love non provi ad alzare la posta in gioco o a essere spietato e anti-assolutorio, ma è fin troppo impegnato a tentare di essere autoriale per diventarlo davvero. Non c’è una singola idea di messa in scena o di scrittura che catturi davvero l’attenzione, e anche quando nel terzo atto i nodi vengono al pettine e il prezzo da pagare per la felicità viene finalmente riscosso non si crea un legame emotivo tra spettatore e personaggi sufficientemente forte da dare potenza al momento di catarsi del protagonista, in questo caso Frankie. Questo accade perché sia Frankie che Jane sono personaggi scritti in maniera debole, che non hanno un vero e proprio arco di trasformazione e che spesso sono vittime degli eventi. Ed è un peccato, perché tutto sommato Zoë Bleu e Hopper Penn fanno anche un discreto lavoro pur senza eccellere, e soprattutto la prima riesce a regalare qualche sfumatura in più alla sua Jane, avvantaggiata anche dalla possibilità di dover usare soprattutto il linguaggio del corpo e le espressioni del viso. Quello che manca a Signs of Love è la capacità di rendere vero ciò che racconta, la sincerità non nell’intenzione ma nella rappresentazione, oltre ad uno sguardo personale e quindi originale sul tema del riscatto.

Mettere a fuoco
Nel cinema contemporaneo, così pieno di linguaggi e di diverse contaminazioni, è fondamentale mantenere bene a fuoco il proprio racconto, evitando di scivolare nel limbo dei lavori sciatti e senz’anima. Signs of Love l’anima ce l’ha ma manca di cura, cura come capacità di tenere le redini di un mondo narrativo, di personaggi che lo abitano e dell’intenzione tematica che dà loro corpo e vita. Non bastano buona volontà e uno scorcio di talento, è necessario che quell’anima sia in grado di parlare e di dire effettivamente qualcosa che non sia mai stato detto finora, o quantomeno di provarci. John Steinbeck sosteneva come al mondo ci fosse una sola storia, quella in cui gli esseri umani sono plagiati dall’ambizione, dall’avidità, dal potere ma anche elevati dall’altruismo e dall’amore, intrappolati in una rete in cui bene e male si affrontano di continuo. Ma sosteneva anche come il racconto sia fatto di grigi, di sfumature e di continue domande finché l’ultima e decisiva domanda potesse essere “ho fatto ciò che era giusto o sbagliato nella mia vita?”. Ecco, Signs of Love quei grigi ogni tanto li cerca ma non li trova mai e quella rete non è abbastanza capiente da contenere abbastanza complessità.
Signs of Love. Regia di Clarence Fuller con Hopper Penn, Zoë Bleu, Dylan Penn, Cree Kawa, Wass Stevens e Rosanna Arquette, in uscita oggi 11 maggio nelle sale distribuito da Nori Film in collaborazione con Fice.
Due stelle