RoFF17: Il colibrì, recensione del nuovo attesissimo dramma di Francesca Archibugi

Il Colibrì - Pierfrancesco Favino e Kasia Smutniak (foto Enrico De Luigi)
Il Colibrì - Pierfrancesco Favino e Kasia Smutniak (foto Enrico De Luigi)

La nostra recensione de Il colibrì, il nuovo film di Francesca Archibugi che ha aperto la 17ª edizione della Festa del Cinema di Roma con Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak, Laura Morante e Nanni Moretti

Tratto dall’omonimo romanzo di Veronesi vincitore del premio Strega 2020, Il colibrì vede la regista Francesca Archibugi dirigere per la prima volta Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak, Laura Morante, Berenice Bejo e Nanni Moretti in una storia fin troppo pregna di dolore e morte.

Storia di un uomo colibrì

Marco Carrera (Pierfrancesco Favino) è un eminente oftalmologo proveniente da una buona famiglia dell’alta borghesia toscana, sposato con una bellissima donna slovena di nome Marina (Kasia Smutniak) e padre di Adele (Benedetta Porcaroli). Una vita apparentemente perfetta la sua, se non fosse che il suo matrimonio stia lentamente cadendo a pezzi e che la sua mente sia rimasta ferma al ricordo di Luisa Lattes (Berenice Bejo), una giovane e bellissima ragazza italo-francese conosciuta quando era adolescente e con la quale continua ad intrattenere rapporti epistolari. Un giorno Daniele Carradori (Nanni Moretti), il terapista di Marina, irrompe nella sua vita per avvertirlo che la moglie sa della sua relazione e che è molto preoccupato che le cose possano prendere una brutta piega. Come se non bastasse, il suo passato torna costantemente a bussare alla sua porta: la morte della sorella Irene (Fotinì Peluso) avvenuta in giovane età, i continui dissapori tra i genitori Probo (Sergio Albelli) e Letizia (Laura Morante), il rapporto conflittuale con il fratello Giacomo (Alessandro Tedeschi) e un disastro aereo  cui è scampato grazie a Duccio (Massimo Ceccherini) rappresentano il fil rouge di un’esistenza che continua a muoversi senza di lui, come un perfetto colibrì.

Il colibrì - Kasia Smutniak e A. Di Marco (foto Enrico De Luigi)
Il colibrì – Kasia Smutniak e A. Di Marco (foto Enrico De Luigi)

Voler essere tutto e troppo

C’è una sorta di furia o di urgenza che guida il racconto de Il colibrì, un bisogno disperato di raccontare nell’arco di 130 minuti la vita piena di svolte e di inciampi di Marco Carrera. Il film rimbalza tra passato, presente e futuro senza una vera e propria soluzione di continuità, buttando nel calderone personaggi, sottotrame e svolte narrative che spesso rimangono in sospeso o, peggio, sembrano essere stati inseriti solo per dare maggior corpo alla vicenda. Se il tema del film è legato all’andare avanti, al decidere, al vivere la vita senza subirla, tutti sembrano paradossalmente muoversi al rallentatore, come se aspettassero da un momento all’altro di dover andare in scena. Tolto il protagonista, la cui immobilità è chiaramente figlia del suo difetto fatale, il resto si aggira a fatica tra le stanze e tra le epoche con piglio insicuro, cercando una risposta al dolore e alla morte che permeano continuamente il film. E questa è una pellicola in cui la morte e il dolore sono presenti in quantità eccessiva, in cui quasi tutti i personaggi sono frustrati o infelici e i pochi che dovrebbero dare adito alla speranza sono destinati comunque alla tragedia. I momenti di scarico emotivo mancano come l’aria, tutto è fin troppo plumbeo (nonostante la fotografia piuttosto calda di Luca Bigazzi) e l’urgenza narrativa finisce per diventare una vorace bulimia.

Il Colibrì - Bérénice Bejo e Pierfrancesco Favino (foto Enrico De Luigi)
Il Colibrì – Bérénice Bejo e Pierfrancesco Favino (foto Enrico De Luigi)

L’importanza del restare in equilibrio

Nel voler raccontare così tanti momenti di una vita costellata da eventi avversi, personaggi e svolte improvvise il film si dimentica spesso di respirare, di lasciare che gli avvenimenti raccontati possano decantare visto il loro peso specifico. Invece procede per accumulo di piani temporali, di musiche extradiegetiche, di litigi e di incomprensioni, scegliendo spesso la via più facile del colpo allo stomaco. Il risultato è un pastiche che vorrebbe unire dramma e commedia, intensità e leggerezza, ma che spesso finisce per prediligere il primo alla seconda. Eppure Il colibrì non è un’opera priva di potenziali spunti interessanti, che avrebbero potuto portarla su un piano diverso e conferirle un’identità più definita anche a costo di tradire il materiale letterario di partenza. In particolare la scena dell’incontro iniziale tra Marco e Daniele, in cui quest’ultimo lo avvisa del pericolo imminente che la sua vita sta per correre, avrebbe potuto rappresentare un ottimo incidente scatenante sia narrativo che tematico ma viene prontamente e con troppa fretta messa da parte. Il film necessita disperatamente sia di equilibrio nella scrittura e nella gestione di tutti gli elementi diegetici e non, che di una direzione precisa nello sguardo e nelle intenzioni.

Il colibrì - Bérénice Bejo e Pierfrancesco Favino (foto Enrico De Luigi)
Il colibrì – Bérénice Bejo e Pierfrancesco Favino (foto Enrico De Luigi)

Un film figlio del suo titolo

Come già accennato nella sinossi d’apertura, Marco Carrera è un uomo di successo, affermato nel suo lavoro, con una bella famiglia e un’esistenza idilliaca. Ma dietro alle pieghe di questa felicità apparente si nasconde invece un uomo bloccato letteralmente nella sua vita, che va avanti senza di lui. Come un colibrì, in grado sbattere le ali più di sessanta volte al minuto e far battere il cuore venti volte tanto, Marco assorbe velocemente tutto ciò che gli accade intorno ma allo stesso modo rimane fermo, stretto tra un passato di sofferenza che non riesce a lasciare andare e un futuro incerto proprio perché figlio di un eterno immobilismo. C’è un filo invisibile che lega i personaggi del film e che la piccola Adele è la sola a poter individuare, ma è un filo che non può toccare Marco in alcun modo perché lui è incapace sia di vederlo che di accettarne l’esistenza. In questo senso sono due personaggi “minori”, quelli di Duccio e Daniele, a rappresentare coloro in grado di poter scuotere Marco dalla sua apatia, a spingerlo a scappare dalla sua vita così incasellata in dei binari ormai morti. E il film è l’essenza stessa della personalità di Marco: si arrotola su stesso, sbatte le ali continuamente ma non si muove mai davvero.

Di questa immobilità è il cast a risentirne maggiormente. Se Pierfrancesco Favino riesce in qualche modo a sopperire alla monodimensionalità del suo Marco col mestiere, Kasia Smutniak è penalizzata da un personaggio, come quello di Marina, sovrascritto e costantemente sull’orlo di una nevrosi. Tra tutti i migliori sono Nanni Moretti e Massimo Ceccherini, ma è il secondo la vera sorpresa del film. Il suo Duccio è un personaggio sì di contorno ma molto interessante e più centrato rispetto agli altri, e lui riesce a donargli quel senso di malinconia misto alla tipica corrosività toscana che lo rendono irresistibile e che gli avrebbero fatto meritare forse più spazio. E probabilmente un film migliore.

Il colibrì. Regia di Francesca Archibugi con Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak, Nanni Moretti, Laura Morante, Benedetta Porcaroli e Berenice Bejo, in uscita nelle sale domani 14 ottobre distribuito da 01 Distribution.

VOTO:

Due stelle

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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