La recensione di Primadonna, pellicola d’esordio della regista Marta Savina premiato nella sezione Alice nella Città alla scorsa Festa del Cinema di Roma: uno sguardo mai troppo condiscendente su una donna libera
La regista Marta Savina porta in sala il suo film d’esordio Primadonna, (qui la conferenza stampa) dopo il premio Panorama Italia vinto alla scorsa Festa del Cinema di Roma e il successo di pubblico nel corso della presentazione al BFI London Film Festival. Tratto dalla storia vera di Franca Viola, che negli anni ’60 si oppose al matrimonio riparatore dopo essere stata stuprata dal suo futuro marito, Primadonna è un film non privo di imperfezioni ma sincero negli intenti e potente nel racconto di un’emancipazione tanto utopica all’apparenza quanto necessaria.
Lia ha detto no
Sicilia, metà anni Sessanta. Lia (Claudia Gusmano) ha ventun’anni e va a lavorare la terra con il padre Pietro (Fabrizio Ferracane), anche se le femmine dovrebbero stare a casa a prendersi cura delle faccende domestiche, come le ripete sempre sua madre Sara (Manuela Ventura). Lia è bella, caparbia e riservata ma sa il fatto suo. Il suo sguardo fiero e sfuggente attira le attenzioni del giovane Lorenzo Musicò (Dario Aita), figlio del boss del paese. Quando lo rifiuta l’ira di Lorenzo non tarda a scatenarsi e il ragazzo si prende con la forza quello che reputa di sua proprietà. A questo punto però Lia fa ciò che nessuno si sarebbe aspettato mai: rifiuta il matrimonio riparatore e trascina Lorenzo e i suoi complici in tribunale, con l’aiuto di un avvocato caduto in disgrazia di nome Amedeo Orlando (Francesco Colella) e mettendosi contro tutto il paese, incluso il ben poco cristiano parroco locale (Paolo Pierobon).

Una storia necessaria
Cercare l’emancipazione personale, prima ancora che sociale, vuol dire pagare un prezzo altissimo, soprattutto se ti trovi in Sicilia negli anni ’60. Un contesto sociale fortemente reazionario, attaccato con le unghie e i denti ad un modello patriarcale vecchio di secoli che non cambia perché tiene in vita (ma solo all’apprenza) un sistema fragilissimo che altrimenti rischierebbe di collassare. La storia di Lia perciò, mutuata su quella vera di Franca Viola, diventa un pretesto prima drammaturgico e poi politico per parlare di emancipazione femminile in primis, ma anche di lotta al pregiudizio e alla discriminazione. Non è probabilmente un caso che l’unico avvocato che accetta di difenderla in tribunale sia un suo pari, un emarginato e un derelitto per colpa della sua omosessualità mai direttamente esplicitata ma fatta intendere a più riprese. Per questo Primadonna lavora su una necessità di cambiamento, di messa in discussione della morale comune e di superamento della stessa, in nome di una modernità di atteggiamento e azione prima ancora che di pensiero.

Donne e uomini
È interessante però notare come in Primadonna l’atteggiamento manicheista nel contrapporre donne vittime a uomini carnefici venga il più delle volte evitato, in favore invece di uno studio antropologico più sfumato e meno netto. Ne è una dimostrazione il padre di Lia, Pietro, interpretato con grande intensità da un Fabrizio Ferracane ormai sempre più a suo agio nei film a carattere “bucolico”; il suo è forse il personaggio migliore di Primadonna – per assurdo – perché contiene tutte le contraddizioni e i tormenti interiori che la scelta così coraggiosa di voler difendere sua figlia, a tutti i costi e nonostante tutto, portano con sé. Di contro il personaggio di Lia, scritto comunque con attenzione e portato sullo schermo da una convincente Claudia Gusmano che torna a collaborare con la regista Marta Savina, rimane invece più aperto allo spettatore e più facilmente leggibile. Il merito della Savina è quello di non essere troppo didattica o didascalica, nonostante il film non riesca a scrollarsi di dosso la sensazione di voler giocare un po’ sul sicuro, e di trovare momenti di grande poesia che evitano il pietismo e la retorica spicciola. La scena notturna sulla spiaggia, ad esempio, ha un valore simbolico fortissimo cosiccome il dialogo che Lia e il padre scambiano dopo la fine del processo, in cui quest’ultimo afferma come la vittoria sostanzialmente non esista mai.

Lia come Franca
Se c’è una cosa che, invece, a Primadonna manca è il coraggio o forse la volontà di osare fino in fondo, di raccontare questa storia andando oltre la scrittura e la messa in scena tradizionale, anche a costo di perdere parte del pubblico a cui essa stessa è rivolta. Perché questa è una storia universale e Marta Savina la racconta nella maniera più universale possibile per raggiungere chiunque col suo messaggio, alle volte con esiti un po ‘scontati soprattutto se si conosce la vicenda di partenza. Ecco, Primadonna avrebbe avuto una necessità ancora maggiore di onorare fino all’ultimo i bei personaggi che porta in scena: quelle donne libere come Ines (bravissima Thony nel darle vita) e Lia, che scelgono per se stesse guardando al di là dei desideri altrui, che scopano o arano i campi perchè lo vogliono loro mettendo in discussione anche i ruoli di genere nel lavoro come la libertà sessuale, ma anche quegli uomini che restano accanto alle donne senza sopraffarle. Alla fine l’emozione sgorga, lo sdegno aumenta e infine arriva anche la catarsi ma quel pugno allo stomaco non arriva; tra l’essere santi e l’essere peccatori si sceglie la via di mezzo, per amore della complessità.
Primadonna. Regia di Marta Savina con Claudia Gusmano, Fabrizio Ferracane, Manuela Ventura, Dario Aita, Francesco Colella, Paolo Pierobon, Gaetano Aronica e Thony in uscita domani 8 marzo nelle sale distribuito da Europictures.
Tre stelle