Venezia 80, Origin, recensione: Ava DuVernay gira un’opera a tesi su castismo e razzismo

Origin - Jon Bernthal e Aunjanue Ellis-Taylor (foto di Atsushi Nishijima)
Origin - Jon Bernthal e Aunjanue Ellis-Taylor (foto di Atsushi Nishijima)

Da Venezia la nostra recensione di Origin di Ada DuVernay, tratto dal libro premo Pulitzer di Isabel Wilkerson: un po’ didascalico, specialmente sul finale, ma capace di regalare alcune sequenze potenti e incisive. In concorso

Che cos’è davvero il razzismo? Si può sempre parlare automaticamente di razzismo quando vediamo una minoranza venire discriminata oppure c’è qualcos’altro sotto che ha radici ancora più profonde? Origin, in concorso a Venezia 80, prova a rispondere a queste e altre domande tramite un racconto che si dipana in epoche e continenti diversi, grazie ad un sufficiente controllo della materia narrativa da parte della regista Ava DuVernay e all’interpretazione genuina di Aunjanue Ellis-Taylor. Peccato per quel didascalismo espositivo che lo azzoppa.

il lavoro di Isabel

Isabel Wilkerson (Aunjanue Ellis-Taylor) è una scrittrice premio Pulitzer che vive col marito Brett (Jon Bernthal) un matrimonio felice, mentre lavora su un libro legato al sistema delle caste nel mondo. Quando Brett muore tragicamente il mondo di Isabel va in pezzi ma grazie all’aiuto della madre e, soprattutto, di sua cugina Marion (Niecy Nash-Betts) riuscirà a portare a termine il suo libro e la sua ricerca, dimostrando così che il castismo è alla base di molta discriminazione e di parte della privazione dei diritti umani.

Il castismo come seme

Non si può dire che Origin non dica qualcosa di interessante o laterale sulla questione del razzismo endemico negli Stati Uniti e nel resto del mondo, proprio perché non è di razzismo che si parla ma di castismo. Cioè del sistema di caste, di gruppi sociali chiusi con appartenenze decise molto spesso per diritto di nascita o successione e quindi senza alcun merito, quindi per pura fortuna. La riflessione della DuVernay è quindi legata a doppio filo alla rielaborazione prima concettuale e poi diegetica di un bisogno di verità, di fare i conti con il passato e il presente di un paese in cui il razzismo è ancora dilagante negli atteggiamenti e nel sentire comune.

Ed è proprio da questa riflessione laterale che Origin torva un punto di partenza e di arrivo, regalando lungo il percorso alti e bassi, momenti di cinema potente e incisivo alternati a passaggi a vuoto senza alcuno scopo narrativo o telematico se non quello di allungare il brodo. La regista americana esplora le radici di questo sistema andandole a scovare nei luoghi e nel tempo in cui esse stesse si sono formate, sono state nutrite e poi hanno germinato discriminazione, odio e paura: l’America del 2012 con l’omicidio di Trayvon Martin, quella degli anni ’50 con le leggi Jim Crow ancora in vigore, la Germania nazista del 1933, l’India dei giorni nostri.

Origin - Aunjanue Ellis-Taylor (foto di Atsushi Nishijima)
Origin – Aunjanue Ellis-Taylor (foto di Atsushi Nishijima)

Ottime intenzioni, resa scolastica

Origin si accontenta di essere solo un film di discreta fattura, quando con un maggior lavoro sulla forma e sulla struttura avrebbe potuto ambire a ben altro. Questo perché il cuore tematico c’è, è vivo e palpita fortissimo seppur un po’ mitigato da un certo didascalismo nell’esposizione. È cinema capace di regalare sequenze potentissime (il ragazzino nero sul materassino che non può tuffarsi in piscina per non “inquinarla”, il rogo di libri durante la Notte dei cristalli) ma anche di non saper gestire le tante (troppe) storyline messe in piedi e che non hanno alcun legame con la tesi del film, senza considerare un certo sadismo nel circondare la protagonista di morte in ogni dove.

In un film che ha una potenza intellettuale in fieri così devastante e che potrebbe davvero riaprire un discorso vecchio di secoli dandogli nuovo ossigeno, è perciò un po’ deludente notare come alcuni momenti siano stati appiccicati senza garantire loro senso o significato; la presenza della vita privata di Isabel è davvero necessaria all’economia del racconto, ad esempio? Certo, serve a garantire un minimo di struttura filmica ad una narrazione altrimenti fin troppo giocata sul filo del documentario, ma a quale prezzo se poi non si limita semplicemente ad ammortizzare la potenza della tesi ma sposta il focus altrove, senza peraltro poi avere il tempo o la volontà di approfondire quegli argomenti?

Insomma, Origin è una mezza occasione persa salvata dalla potenza immutabile della Storia e da un buona prova di tutti gli attori in gioco, e in particolare della protagonista Aunjanue Ellis-Taylor, carismatica, precisa, concentrata. Come avrebbe dovuto essere questo Origin fino in fondo, e non lo è stato.

Origin. Regia di Ada DuVernay con Aunjanue Ellis-Taylor, Jon Bernthal, Niecy Nash-Betts, Vera Farmiga e Connie Nielsen, in uscita quest’inverno distribuito da Neon Pictures.

VOTO:

Tre stelle

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