Eugenio Allegri porta Novecento (per la regia di Gabriele Vacis) al Teatro Pime di Milano: un racconto senza tempo e una rappresentazione magistrale in cui lo spettatore entra in simbiosi con Novecento, ancora dopo quasi 25 anni dalla pubblicazione di Alessandro Baricco.
Il trio Allegri, Vacis, Baricco
«Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla»: è la frase che Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento dice a Tim Tooney, il suo amico trombettista che sale sulla nave Virginian tra il 1927 e il 1933 – interpretato, nel monologo Novecento (scritto da Alessandro Baricco e diretto da Gabriele Vacis) da Eugenio Allegri. Lo spettacolo, che dopo quasi 25 anni continua a girare i teatri italiani e mondiali, è andato in scena al Teatro Pime di Milano il 30 novembre, davanti a un pubblico incantato.
Il jazz
Novecento è un piccolo volumetto, appena 64 pagine, scritto da Alessandro Baricco nel 1994 ed edito da Feltrinelli: nella prefazione, si legge come l’autore abbia scritto il monologo proprio «per un attore, Eugenio Allegri, e un regista, Gabriele Vacis». Sarà stata proprio la miscela di tre ingredienti precisi a creare un classico intramontabile, o forse sarà stata una serie di fortunate coincidenze, ma Novecento continua a calcare le scene con Eugenio Allegri, raccontando la storia del «più grande pianista che abbia mai suonato sull’Oceano», il tutto su un ritmo di jazz – che è poi la musica di sottofondo alla storia di Novecento stesso. Allegri modula così le sue frasi sulla melodia, uniformando racconto e modo di raccontare, trasmettendo anche allo spettatore una sensazione di improvvisazione continua – proprio come nel jazz. Non per niente, una delle frasi iconiche del monologo è «In culo anche il jazz».
La scena spoglia
In scena, solo un telo bianco e un piccolo pianoforte che penzola appeso al soffitto. Sono gli unici elementi che servono; il resto lo fanno le luci, che spaziano dal blu del mare al rosso allarme, i giochi d’ombra, qualche immagine proiettata e la musica. Il pianoforte è protagonista, sullo sfondo, di alcune delle scene centrali, come il duello con Jelly Roll Morton o la ballata sull’Oceano, quando Tim e Novecento si fanno trascinare dalle onde senza abbandonare la musica. Lo spazio del palco, per il resto, è occupato da Allegri, che, con la sua cravatta slacciata al collo, veste i panni di Tim ma rimanda al pubblico l’immagine di Novecento stesso.
Il pianoforte
È il pianoforte che racchiude il tema del contrasto finito/infinito sotteso alla pièce: «Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi suonare». È l’inizio dell’ultima parte del monologo. È passata la guerra, Novecento non è ancora sceso dalla nave, che vogliono demolire, e ora siede sulla dinamite. Tim lo va a trovare un’ultima volta e diventa così custode della storia del suo amico, della sua vita trascorsa a dorso dell’Oceano e del perché non è mai voluto scendere a terra.
Novecento è universale
Allegri qui cambia tono: non è più jazz spensierato, e infatti il pianoforte non c’è più. Ora Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento siede su una valigia, e parla in modo serio, lento. Assorto nei suoi pensieri, sembra che le parole fluiscano fuori da lui come quando la musica fluiva fuori dalle sue dita. Novecento racconta perché non è mai sceso dalla nave, racconta il suo terrore davanti all’infinità di scelte che la vita srotola davanti a ciascuno: «Cristo, ma le vedevi le strade?/ Anche solo le strade, ce n’è a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una/ A scegliere una donna/ Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire/ Tutto quel mondo/ Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce/ E quanto ce n’è/ Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla…/». Racconta della guerra, della morte che popolava la stessa nave su cui lui aveva ricevuto la vita e aveva vissuto tutta la sua vita: «Il padre che non sarò mai l’ho incontrato guardando un bambino morire, per giorni, seduto accanto a lui, senza perdere niente di quello spettacolo tremendo, bellissimo, volevo essere l’ultima cosa che guardava al mondo, quando se ne andò, guardandomi negli occhi, non fu lui ad andarsene ma tutti i figli che mai ho avuto». La straordinaria capacità di Eugenio Allegri carica il finale di sconforto e di malinconia, creando un’atmosfera quasi surreale in cui lo spettatore entra definitivamente in simbiosi con Novecento, e allo stesso tempo lo vede manifestarsi in modo concreto sul palco, proprio nella persona di Allegri (che, non a caso, dopo anni di rappresentazione lo dice apertamente: «Io sono Novecento»).
Ancora dopo 25 anni
Un racconto senza tempo, una rappresentazione magistrale. Il pubblico del Pime, incantato per tutta l’ora e quaranta del monologo, alla fine ha regalato ad Allegri un fortissimo applauso che, ancora una volta, dopo quasi 25 anni, conferma la sua straordinaria capacità di coinvolgere e commuovere gli spettatori.