La nostra recensione di Monte Verità, film del regista svizzero Stefan Jäger già passato per il Festival di Locarno 2021 e il 40° Torino Film Festival: un racconto di emancipazione femminile piatto e troppo convenzionale
Due anni dopo essere stato presentato a Locarno e qualche mese dopo un breve passaggio al 40° Torino Film Festival arriva nelle sale questo Monte Verità, un film fortemente voluto dal suo regista e sceneggiatore Stefan Jäger che racconta la creazione della prima comune d’Europa. Peccato però che la storia sia ben più interessante della pellicola.
Profumo di libertà
Hanna Leitner (Maresi Riegner) è una giovane moglie e madre di due figlie che soffre l’oppressione della vita matrimoniale e della società borghese nella quale si sente relegata, anche a causa del marito Anton (Philipp Hauss). Decide così di lasciare Vienna e la sua famiglia per raggiungere la comunità che ad Ascona, in Svizzera, si riunisce sul monte Monescia, ribattezzato Monte Verità. In questo luogo di libertà, abitato da artisti e gente di ogni provenienza, Hanna, la quale è affetta da asma, prova a riprendere a respirare, fisicamente ed emotivamente. Lontana dal marito che insiste per avere un altro figlio e non concepisce altro per lei che il suo ruolo di madre e di moglie, Hanna riuscirà a dare spazio alla passione per un’arte alla quale il marito le ha sempre negato il diritto di accedere, anche grazie all’incontro con il controverso Otto (Max Hubacher): la fotografia.

Il trionfo del simbolismo
C’è un problema di fondo che permea la struttura e, di conseguenza, anche tutto il tessuto narrativo di un film come Monte Verità: non racconta la cosa giusta. Certamente si parte da un fatto vero, la creazione della prima comune d’Europa all’inizio del 1900, ed è l’elemento diegetico più interessante della pellicola perché sposta il tema della libertà vs conformismo da una prospettiva privata ad una pubblica. A partire dal secondo atto, infatti, con la fuga di Hanna e l’arrivo al Monte Verità il film abbandona il canovaccio di film d’epoca incastrato nei palazzi e nelle relazioni opprimenti per provare ad aprirsi con lo sguardo, ma dimentica di fare entrare il film in quello sguardo. Monte Verità rimane infatti costantemente chiuso in Hanna, nel suo rapporto tremendamente tossico con il marito, nella sua costante ricerca di libertà e di un’identità altra da quella di moglie e madre sottomessa, nel suo incessante simbolismo magico, rarefatto ed etereo che annacqua le potenzialità drammaturgiche per trasformarsi in un film cartolina.

Figlio del Me Too
È evidente come Monte Verità sia un film nato dalle esigenze del movimento Me Too e di come il regista Stefan Jäger faccia convergere nella parabola di Hanna le istanze della liberazione sessuale, intellettuale, sociale e artistica femminile, ma la sua presa di posizione non ha abbastanza forza o originalità espressive per intavolare un discorso sul tema scevro da banalità. Monte Verità diventa quindi un film manifesto che evita accuratamente di approfondire l’arena svizzera e le relazioni che si instaurano all’interno della comune di Ascona, per legarsi solo ed esclusivamente ad Hanna e utilizzare la sua fuga come unico appiglio narrativo. Il problema è che la stessa Hanna è un personaggio estremamente trattenuto, senza guizzi, una donna quasi archetipica nella sua costruzione e nel suo arco di trasformazione che non riesce a scrollarsi di dosso l’etichetta di vittima. Un po’ come tutta la pellicola del resto, il cui peccato principale è proprio quello di non saper sfruttare minimamente le tante possibilità offerte dal cambio di arena, dal contrasto tra il mondo cittadino e patriarcale del primo atto e quello bucolico e inclusivo del resto del lungometraggio; un contrasto tra l’altro privo di sfumature e di grigi, ennesima rappresentazione di un manicheismo pericoloso tipico di troppo cinema attuale.

Sacrificare l’arena
Come già accennato in precedenza Monte Verità non riesce quasi mai a dare peso all’ambientazione svizzera e ai personaggi veri e fittizi che la popolano. Abbiamo in scena Herman Hesse, Isadora Duncan e appunto lo psicoanalista Otto Gross ma sono pezzi di un puzzle che non si compone mai, figurine che rimangono in gran parte sullo sfondo e il cui unico scopo è quello di rappresentare un’altra vita possibile per Hanna. È troppo poco però perché Monte Verità diventi realmente interessante o appassionante, e il concept di partenza non fa altro che aumentare i rimpianti per un film che avrebbe potuto e dovuto essere molto più coraggioso, più audace, più ambizioso. Quel che rimane è invece una galleria di figure amorfe e prevedibili, e una protagonista il cui percorso non possiede mai un respiro drammaturgico così possente da riuscire ad oscurare tutto il resto; il viaggio di Stefan Jäger non riesce quindi a staccarsi dal puro esercizio di stile, che ha una sua eleganza e una sua verità, ma che scorda l’ingrediente principale di ogni storia: l’anima.
Monte Verità. Regia di Stefan Jäger con Maresi Riegner, Philipp Hauss, Max Hubacher e Julia Jentsch, uscito nelle sale giovedì 29 giugno distribuito da Draka Cinema.
Due stelle