Il dramma shakespeariano trasportato in una Sardegna arcaica e senza tempo. Un Macbeth che si esprime in sardo e, come nella più pura tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini, è l’originale e pluripremiato spettacolo di Alessandro Serra, Macbettu, in scena dal 4 al 6 maggio al Teatro Argentina.
«Macbettu restituisce la natura profonda del testo shakespeariano», commenta il regista Alessandro Serra, sua la ideazione, scene, costumi e luci dell’immaginifica e originale rilettura del capolavoro del Bardo. Premio Ubu 2017 come miglior spettacolo dell’anno e premio Anct 2017 (Associazione nazionale critici di teatro), la pièce tradotta e adattata dall’inglese al sardo logudorese da Giovanni Carroni, sposta la cruenta tragedia dalla Scozia in Barbagia. Terra evocata, mai nominata, quasi luogo metaforico di un passato ancestrale con i suoi segni e simboli e la potenza di un linguaggio dove la parola diventa canto e conquista e emoziona lo spettatore con tutta la sua forza espressiva. «Nel riscrivere il testo – racconta Serra – tutti i personaggi femminili sono stati omessi e la storia non sembrava subire alcuna ferita. Tutte le donne riassunte in un’unica dea madre reggitrice di morte: Lady Macbeth. Più alta e più forte degli uomini, come in una delle sue più antiche rappresentazioni, quella di Ozieri: filiforme, astratta, trascendente. L’idea nasce nel corso di un reportage fotografico tra i carnevali della Barbagia tra i suoni cupi prodotti da campanacci e antichi strumenti, le pelli di animali, le corna, il sughero. La potenza dei gesti e della voce, la confidenza con Dioniso e al contempo l’incredibile precisione formale nelle danze e nei canti, le fosche maschere e poi il sangue, il vino rosso, le forze della natura domate dall’uomo, soprattutto il buio inverno». Le sorprendenti analogie tra il capolavoro shakespeariano e le maschere della Sardegna diventano il fulcro di questo spettacolo. La lingua sarda non limita la fruizione, bensì trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di scadere in letteratura. «Abbiamo lavorato sulle analogie, sulla natura arcaica dei carnevali barbaricini, sui segni iconici, sugli archetipi, sui codici culturali, andando oltre la maschera e il folklore, quasi con un’operazione di ‘espianto di aura». Uno spazio scenico vuoto, attraversato dai corpi degli attori che disegnano luoghi ed evocano presenze. Pietre, terra, ferro, sangue, positure di guerriero, residui di antiche civiltà nuragiche. Materia che non veicola significati, ma forze primordiali che agiscono su chi le riceve.
Macbettu si incunea in un crocevia: da un lato le intuizioni geniali del Macbeth di Shakespeare, dall’altra l’ispirazione del regista di fronte al Carnevale barbaricino. Della vicenda scespiriana si recupera l’universalità e la pienezza di sentimenti, millimetricamente in bilico sul punto di deflagrare. Di fronte ai carnevali sardi una visione: uomini a viso aperto si radunano con uomini in maschere tetre e i loro passi cadenzano all’unisono il suono dei sonagli che portano addosso. «Quell’incedere di ritmo antico, un’incombente forza della natura che sta per abbattersi inesorabile, placida e al contempo inarrestabile: la foresta che avanza – così Serra descrive la suggestiva ascendenza da cui è scaturito il suo lavoro di contaminazione. Macbettu traduce – e volontariamente tradisce – il suo riferimento testuale, valica i confini della Scozia medievale per riprodurre un orizzonte ancestrale: la Sardegna come terreno di archetipi, orizzonte di pulsioni dionisiache. Il risultato è uno spettacolo di meraviglia cupa, in grado di utilizzare elementi della tradizione, senza fermarsi a una contemplazione statica, ma utilizzando i segni in modo contemporaneo, quindi ambiguo, tragico, affascinante. La scena è curata in una stilizzazione puntuale: ogni oggetto – i costumi, le pietre, il sughero, i campanacci – è elemento coerente e contribuisce alla costruzione di uno spazio visionario e evocativo, in cui gli attori si muovono, seguendo precise traiettorie coreografiche. Macbettu inquieta con l’atroce bellezza di un racconto senza parole, in grado – come da tradizione barbaricina – di dire senza rivelare.

Nelle stesse date (4 maggio ore 17.30; 5 e 6 maggio ore 16; dai 4 anni), Alessandro Serra e la sua compagnia Teatropersona portano in scena al Teatro India con Il Principe Mezzanotte, una romantica fiaba dai tratti misteriosi, noir e poetici attraverso un carosello di personaggi buffi e grotteschi. Sul palcoscenico una “stanza magica”, onirica, accoglie piccoli e grandi spettatori attraverso un inusuale pertugio: un comò, appositamente realizzato per diventare una piccola porta una volta privato dei cassetti. Il Principe Mezzanotte è una storia tenebrosa, divertente e buffa, ma anche un po’ paurosa. C’era una volta un principe di nome Mezzanotte, nato a mezzanotte e perdutamente innamorato del buio e delle stelle perché di notte, non solo si nascondono fantasmi, lupi e streghe, ma prendono vita i sogni. Tuttavia, anche i sogni più belli posso trasformarsi in incubi, proprio come accadde al povero principe, costretto a nascondersi in questo magico comò per sfuggire alla maledizione della terribile strega Valeriana. La strega si era talmente innamorata del pallido principe che quando lui la respinse gli lanciò una terribile maledizione: il giorno in cui il principe si fosse innamorato si sarebbe trasformato in un essere mostruoso. Da allora Mezzanotte, rimpicciolito con tutto il suo castello e i suoi servitori vive triste e solitario, in attesa che qualcuno sciolga la maledizione. “Ma che succede? Qualcuno è entrato nel castello? C’è un gran trambusto, inseguimenti, porte che sbattono, luci che vanno e vengono”, non resta che entrare proprio attraverso il comò.