La nostra recensione de L’orto americano di Pupi Avati, che torna all’horror con un insolito bianco e nero e Filippo Scotti come protagonista, analizzando il legame tra relazioni umane e il rapporto intimo con la terra
Nel dopoguerra, un giovane italiano, aspirante scrittore si innamora di una nurse americana e la segue nel Mid West, dove scopre inquietanti resti umani in un orto. Questa macabra scoperta lo trascinerà in un’indagine pericolosa, portandolo a svelare segreti oscuri e a vivere un’avventura sconvolgente.
Chiedere se L’orto americano di Pupi Avati sia piaciuto o meno apre a una questione complessa; infatti la risposta non può limitarsi a un semplice “sì” o “no”. In sala qualcuno ha lasciato la proiezione a pochi minuti dall’inizio. Ma sta a noi capire se a torto o a ragione. Facile passare dalla coltivazione della verità al momento di innaffiare il torto, spesso basta talvolta una “T” di… troppo! Parola chiave che non a caso viene inserita nel titolo della pellicola. E il focus passa subito alla sua parte agricola, basta fare un po’ più di attenzione. L’orto riappare sempre in un binomio di realtà che a volte si incontrano, a volte viaggiano parallele.
Ci si destreggia tra il bianco e nero della verità, con luci e ombre, per passare poi alla scala di grigi che si mischiano con la fantasia. E che danno a tutto il film un’aria di vintage che non guasta. Il bianco e nero infatti non risulta mai piatto, anzi. Contribuisce a dare profondità ai temi trattati e alla sceneggiatura. L’ambientazione ne rimane avvolta positivamente.
Il protagonista si muove di continuo fra questi e altri binomi, come ad esempio l’esatta collocazione nel mezzo dell’Italia agli Stati Uniti d’America. Chissà che uno dei significati non sia proprio riferito alla storia del regista, che fa capolino al nuovo ma non lascia del tutto andare il retrò. La sceneggiatura e la fotografia viaggiano sullo schermo insieme ai personaggi. L’atmosfera è resa oscura e macabra proprio da questi escamotage, usati dalle sapienti mani da chi ha lavorato per il film. D’altronde quest’opera va oltre la narrazione cinematografica tradizionale, lasciandoci perplessi e con molte domande.
Horror all’italiana
Il film, presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, ha avuto una distribuzione insolita e non ha suscitato grande clamore, ma merita di essere compreso al di là delle aspettative. Se il termine “esterrefatto” sembra appropriato, potremmo però decontestualizzarlo. Guardando alla totalità della pellicola, l’impatto di Avati sulla nostra storia culturale è indiscutibile.
La visione del film solleva interrogativi e dubbi, e Avati, noto per il suo lavoro nell’horror, si avventura in un genere spesso dimenticato, che rievoca una cultura fiorente degli anni ’70 e ‘80. Se ci aspettiamo un horror splatter alla maniera americana, resteremo delusi. L’Orto Americano non è solo un film; è un’esplorazione del legame tra relazioni umane e il rapporto intimo con la terra, rappresentato attraverso gli orti, simboli di proprietà e del divario tra vita e morte.
In un’epoca di frenesia moderna, Avati ci invita a una pausa, chiedendoci di riflettere. I temi della salute mentale emergono attraverso il protagonista, Filippo Scotti, un romanziere in cerca di un’identità in America, lacerato tra la vita moderna e il richiamo della tradizione. In un contesto degli anni ’40, il suo dialogo con i morti riflette la stigmatizzazione della salute mentale.
Il filone narrativo
La narrazione si divide in due atti: il primo, ambientato in Ohio, crea un’atmosfera noir attraverso il bianco e nero, riflettendo ambizioni e delusioni. Qui, Filippo si innamora, segnando l’inizio di una storia che si svilupperà in Italia, dove le relazioni diventano sempre più complesse. La seconda parte del film, con tonalità gialle, suggerisce una svolta narrativa e amplifica la tensione, mentre il gruppo di protagonisti continua a coltivare il loro orto, facendosi sentire le ombre del passato.
Avati utilizza abilmente la musica e il silenzio per avvolgere lo spettatore, creando un’intimità profonda. La pellicola esplora non solo l’atto di coltivare, ma anche tematiche esistenziali come la solitudine e il senso di appartenenza. Ogni personaggio affronta una crisi individuale e collettiva, rendendo il protagonista incredibilmente umano, nonostante la sua etichetta di “matto”.
Il film ci sprona a guardare oltre le apparenze, a riconoscere la fragilità umana e a cercare connessioni nei momenti difficili. In questo contesto, la risata e la malinconia si intrecciano, riflettendo la vita stessa. “Orto Americano” è un invito a riscoprire l’importanza delle relazioni autentiche e la bellezza delle piccole cose.
D’altronde Pupi Avati, maestro del cinema italiano, ci ha già abituati al rispetto di uno stile più unico che raro. Ai quali ci ha introdotto senza sorprenderci a suon di tradizione, senza lasciare che il moderno ci conduca troppo fuori dai binari. Il regista ha saputo spaziare tra horror, dramma e commedia, regalando capolavori come La casa dalle finestre che ridono e Regalo di Natale. Narrate storie di provincia, misteri inquietanti e amori malinconici, anche l’american dream pare lasciare un solco nella sua “poetica” cinematografica, lasciando un segno indelebile nel panorama e strizzando l’occhio ai suoi fan più accaniti. Che dicerto non si sentiranno traditi.
Vita e terra: un legame indissolubile
In sintesi il film celebra due aspetti principali: la vita e la resistenza, sottolineando che, anche nelle avversità, c’è sempre spazio per la rinascita. Avati ci invita a coltivare non solo la terra, ma anche i legami che ci uniscono.
Lo fa usando attori non famosissimi, scelta forse non furba a livello mainstream ma di rispetto per la scelta di volti adattissimi ai personaggi interpretati. Su tutti il già citato Filippo Scotti e poi un buon Andrea Roncato, che i più ricorderanno come il famosissimo Loris Batacchi, che ha fatto sorridere accanto a Fantozzi non poche generazioni. Apparso più per un cameo che per una parte di rilievo eccessivo si lascia guardare volentieri sullo schermo, nonostante la parte, non propriamente simpatica. Resta una mossa di grande impatto visivo e capace di attirare l’attenzione nella sala.
Le quasi due ore di visione scorrono fluenti sullo schermo e non ci si annoia mai, se ci si riesce a calibrare nello stile proposto. Il film infatti prosegue vivace e con pochi attimi di noia, nonostante la lunghezza. Anche il finale è al limite dell’incredulità. Chissà se tutto ciò che abbiamo visto è vero, frutto della fantasia del nostro “strambo” autore, una proiezione o una realtà tanto “desiderata” ma irrealizzabile. Non c’è spoiler perché niente è come sembra! Un’opera da vedere sicuramente, sentire e vivere, che ci offre l’opportunità di riflettere su di noi e in generale sulla condizione umana. E allora andiamo al cinema… e diamocela almeno una possibilità!
TITOLO | L’orto americano |
REGIA | Pupi Avati |
ATTORI | Filippo Scotti, Rita Tushingham, Chiara Caselli, Roberto De Francesco, Armando De Ceccon, Massimo Bonetti, Morena Gentile, Mildred Gustafsson, Romano Reggiani |
USCITA | 6 marzo 2025 |
DISTRIBUZIONE | 01 Distribution |
Tre stelle e mezza