Living, recensione: Bill Nighy incendia lo schermo nel remake inglese del capolavoro di Kurosawa

Living - Bill Nighy (foto Sony Pictures Classics)
Living - Bill Nighy (foto Sony Pictures Classics)

La recensione di Living, remake inglese del capolavoro di Kurosawa del 1952, qui interpretato da un Bill Nighy mai così misurato e struggente nel rappresentare la volontà di un uomo comune di lasciare il suo segno prima della fine

Dopo essere stato presentato fuori concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia arriva nelle sale Living di Oliver Hermanus, remake dichiarato dell’omonimo capolavoro di Akira Kurosawa datato 1952. Qui la storia si sposta dal Giappone all’Inghilterra dei primi anni ’50 con un Bill Nighy in stato di grazia, intenso e magnetico.

Un ultimo impegno

1953. Londra stenta ancora a riprendersi dalla distruzione della Seconda Guerra Mondiale. Williams (Bill Nighy), un anziano dipendente pubblico, è solo un piccolo e impotente ingranaggio della burocrazia cittadina. Schiacciato da montagne di scartoffie e solo come un cane conduce un’esistenza vuota e priva di senso finché, all’improvviso, una sconvolgente diagnosi lo obbliga a fare un bilancio spingendolo all’azione prima che sia veramente troppo tardi.Lo ritroviamo sulla costa, accompagnato da una specie di debosciato del posto (Tom Burke), dove tenta la carta dell’edonismo ma con scarsissimo successo. Tornato a Londra, si lascia conquistare dalla esplosiva vitalità della giovane Margaret (Aimee Lou Wood), una sua ex dipendente pronta ormai a spiccare il volo. Una sera Williams ha una semplice ma profonda rivelazione e grazie all’aiuto di Peter (Alex Sharp), un giovane idealista appena assunto ,decide di creare qualcosa da lasciare alla generazione successiva: un parco giochi da cui poter ripartire per ritrovare la speranza.

Living - Aimee Lou Wood (foto Sony Pictures Classics)
Living – Aimee Lou Wood (foto Sony Pictures Classics)

Storia di un uomo comune

Quando nel 1952 Akira Kurosawa si apprestava a dirigere Ikuru (Living) il Giappone e il mondo intero stavano ancora facendo i conti con i residui del secondo conflitto mondiale, e di conseguenza il capolavoro del regista giapponese appariva come un film necessario nel proiettare una forma di speranza ed ottimismo (seppur miti) verso un immediato futuro ancora incerto. Settant’anni dopo il mondo è un posto molto diverso, cambiato sia in meglio che in peggio, ma lo sceneggiatore inglese Kazuo Ishiguro (Nobel per la letteratura nel 2017) e il regista Oliver Hermanus hanno deciso di trasporre la vicenda di questo Living sì in Inghilterra ma rimanendo nei primissimi anni Cinquanta. Il risultato è un film che guarda al passato pur rivolgendosi in qualche modo al presente, un film che descrive la parabola di un uomo comune che decide alla soglia della sua vita di voler lasciare dietro di sé qualcosa in più di un mucchio di scartoffie. Williams è un personaggio che fa del non detto la sua caratteristica principale, un non detto che lo spinge a non rivelare al figlio e alla nuora la sua diagnosi di cancro ma anche a rimanere in qualche modo impassibile di fronte alla mediocrità della sua esistenza.

Living - Alex Sharp e Bill Nighy (foto Sony Pictures Classics)
Living – Alex Sharp e Bill Nighy (foto Sony Pictures Classics)

Oh Rowan Tree

Nella scena (bellissima) in cui Williams, ubriaco, si rende protagonista di un’interpretazione memorabile di Oh Rowan Tree, canzone scozzese del diciottesimo secolo, è in qualche modo contenuto il senso di questo Living. In fondo questo è un film in cui, proprio come nella canzone, saggezza e coraggio si mescolano assieme e dipingono la volontà e la capacità di scorgere lo straordinario nell’ordinario. In un ruolo che vale una carriera Bill Nighy recita costantemente in sottrazione, guarda la camera di sfuggita e poi volge lo sguardo altrove come imbarazzato, misura e soppesa i gesti, le parole e i movimenti del corpo. È un’interpretazione misurata e dolentissima la sua, mentre la sceneggiatura di Ishiguro piuttosto scarna nei dialoghi e nelle svolte di trama e piuttosto fedele al film originale (tranne che in un paio di occasioni) costruisce il film interamente attorno al suo personaggio e alla sua ricerca di senso all’interno di una vita svuotata dalla noia e dalla banalità.

Living - Alex Sharp (foto Sony Pictures Classics)
Living – Alex Sharp (foto Sony Pictures Classics)

Il senso del nostro vivere

Living non è certamente un’opera per tutti, priva com’è di un ritmo vertiginoso, di un intreccio avvincente o di una struttura avvolgente come quella di molti film d’epoca. Piuttosto è una pellicola molto più calda di quanto appaia e dalla profondità rotonda, una pellicola che ragiona di seconde possibilità e di felicità con il lento incedere di una nevicata di fine inverno. Nei suoi 97 minuti di durata (decisamente meno dell’originale di Kurosawa) non tutto funziona alla perfezione e alcuni passaggi sembrano un po’ troppo repentini e bruschi, soprattutto nel terzo atto, ma il percorso di Williams e in misura minore di Margaret e Peter è fatto di emozioni tanto trattenute quanto tangibili, di una speranza mai sopita e di una voglia di pensare al futuro nonostante l’idea di una fine incombente. Ed è il merito più grande di un film gentile come questo Living, quello di ricordarci che le altalene che abbiamo costruito e sulle quali ci siamo dondolati continueranno ad oscillare anche senza di noi, purché qualcuno porti avanti la nostra eredità.

Living. Regia di Oliver Hermanus con Bill Nighy, Aimee Lou Woods, Tom Burke e Alex Sharp, uscito nelle sale il 22 dicembre distribuito da Circuito Cinema.

VOTO:

Tre stelle e mezzo

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