La nostra recensione de Il potere del cane, western psicologico di Jane Campion, con Benedict Cumberbatch e Kirsten Dunst, fumosa meditazione sulla crisi del machismo, miglior regia a Venezia 2021
A dodici anni dal suo ultimo film, la regista neozelandese Jane Campion torna dietro la macchina da presa e confeziona Il potere del cane, anomalo western psicologico, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage. Il film è stato presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2021, dove Campion è stata premiata con il Leone d’argento – Premio speciale per la regia. Una pellicola di scontri violenti e meditazioni soffuse che ambisce a cogliere tutte le sfumature dei suoi personaggi, ma che resta piuttosto fumosa e superficiale.

I contrasti del West
Montana, 1925. Un vento di cambiamento e progresso spira sulle praterie del vecchio West, mentre ataviche tradizioni faticano ad essere sradicate. Una coppia di fratelli, proprietari di un prospero ranch, incarna questa dicotomia. George (Jesse Plemons), gentiluomo distinto dalle maniere borghesi, sposa la vedova Rose (Kirsten Dunst) e si prende cura dello strambo figlio di lei Peter (Kodi Smit-McPhee). Phil (Benedict Cumberbatch), invece, è un cowboy rozzo e burbero dal granitico carisma, ossessionato da un passato che stenta a lasciar andare. Il matrimonio del fratello scatenerà in Phil un turbamento destinato a far venire a galla sentimenti a lungo rimasti sopiti.

La crisi del machismo
Attraverso il personaggio di Phil e l’ambiguo rapporto che questi intesse con Peter, il film fotografa le contraddizioni di una mascolinità tossica, primitiva e autoritaria, che nasconde pulsioni rimosse e un malessere recondito. Al contempo si mette in scena un ottuso e testardo rifiuto di accogliere il cambiamento, percepito come possibile messa in discussione di uno status quo cui non si riesce a rinunciare. Peccato che il volto delicato ed affascinante di Benedict Cumberbatch appaia totalmente incompatibile con la sudicia sporcizia in cui sguazza Phil e scateni un senso di straniamento che non fa bene allo sviluppo del personaggio. Ben più azzeccato è Jesse Plemons nel ruolo del fratello garbato e sensibile, altra faccia di quella crisi del machismo che il film tenta di mettere in scena.

Mettere a fuoco
Il problema principale de Il potere del cane è una sceneggiatura che, invece di camminare al passo con i suoi personaggi, scandagliando con efficacia le loro motivazioni, li rincorre affannosamente perdendone le tracce tra le vaste praterie del Montana. Paradigmatico è il caso del personaggio di Rose: Kirsten Dunst cerca in tutti i modi di dare spessore a una donna che cade nella voragine dell’alcolismo, ma la sua storyline è solo accennata e ad un certo punto totalmente abbandonata. È come se il film fosse consapevole della profondità emotiva e psicologica del materiale narrativo che ha tra le mani, ma non riuscisse mai a mettere veramente a fuoco le idiosincrasie di una storia che resta sbiadita, inconsistente e incapace di coinvolgere.

Estetica evocativa
A salvare baracca e burattini ci pensa un’estetica particolarmente suggestiva, che poggia su una fotografia calda e avvolgente che abbraccia le colline dorate e crea contrasti sui volti contriti degli interpreti. La regia, semplice e lineare, contribuisce inoltre a sottolineare il contrasto tra la claustrofobia di cui sono vittima i personaggi e la desolante vastità dei paesaggi tipici dei film western. Lo sguardo di Campion si nota, in particolare, quando l’immagine viene caricata di ipnotismo e sensualità che cercano di riscattare la vacuità della sceneggiatura. Il potere del cane, insomma, una fallace meditazione che cattura l’occhio, ma che si spezza sotto il peso di una complessità che non riesce a districare.
Il potere del cane. Regia di Jane Campion. Con Benedict Cumberbatch, Jesse Plemons, Kirsten Dunst, Kodi Smit-McPhee, Thomasin McKenzie, Keith Carradine, Frances Conroy, Adam Beach, Sean Keenan, Cohen Holloway, Stephen Lovatt, Alison Bruce. Disponibile su Netflix.